Corte Costituzionale, Sentenza 19 novembre 2015 n. 234
Corte Costituzionale, Sentenza 19 novembre 2015, n. 234
Presidente: Criscuolo – Redattore: Lattanzi
[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 47 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), promosso dalla Corte d’appello di Milano nel procedimento vertente tra il Consiglio notarile di Milano e M.F., con ordinanza del 13 novembre 2014, iscritta al n. 261 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti l’atto di costituzione di M.F., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 settembre 2015 il Giudice relatore Giuseppe Frigo, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Barbara Randazzo e Luigi Manzi per M.F. e l’avvocato dello Stato Antonio Grumetto per il Presidente del Consiglio dei ministri.
RITENUTO IN FATTO
1.- Con ordinanza del 13 novembre 2014 (r.o. n. 261 del 2014), la Corte d’appello di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), «nella parte in cui non consente, in ogni caso, la riabilitazione del notaio dopo la condanna per uno dei reati indicati dalla stessa disposizione».
La Corte rimettente riferisce di dover decidere su un ricorso proposto dal Consiglio notarile di Milano nei confronti di una persona, destituita dal notariato a seguito di condanna penale per peculato ed appropriazione indebita.
In merito ai fatti, la Corte espone che il notaio era stato destituito in conseguenza di una condanna, divenuta definitiva nel dicembre 2003, per i delitti di peculato (art. 314 del codice penale) e di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen). La pena inflitta – scontata in parte in carcere, in parte agli arresti domiciliari e infine con l’affidamento in prova ai servizi sociali – era stata dichiarata estinta a seguito dell’esito favorevole del periodo di prova.
Successivamente il notaio aveva presentato al Consiglio notarile di Milano, ex art. 159 della legge n. 89 del 1913 (cosiddetta legge notarile), una richiesta di riabilitazione all’esercizio delle funzioni notarili, che era stata rigettata in considerazione della gravità e della risonanza pubblica dei fatti commessi e, comunque, della preclusione, contenuta nella legge notarile, della riabilitazione in relazione ai reati per i quali era intervenuta la condanna.
Il notaio aveva allora richiesto al consiglio notarile di sottoporre la delibera di rigetto alla corte d’appello competente, affinché provvedesse all’omologazione, ex art. 159, comma 2, della legge notarile, sostenendo che tale controllo giurisdizionale doveva avvenire, sia nel caso di accoglimento, sia nel caso di rigetto dell’istanza di riabilitazione.
In seguito a questa ulteriore domanda, il consiglio notarile aveva proposto il ricorso per il quale è pendente il giudizio a quo, chiedendo alla corte d’appello, in via principale, di dichiarare «l’improponibilità, l’inammissibilità e la infondatezza» della domanda proposta dal notaio, dato che il giudizio di omologazione poteva riguardare solo le delibere di accoglimento delle istanze di riabilitazione e, in subordine, di confermare la legittimità e la fondatezza della delibera di rigetto, in quanto conforme alle prescrizioni dell’art. 159, comma 3, della legge n. 89 del 1913.
Il notaio si era costituito chiedendo che la corte d’appello, rifiutata l’omologazione della delibera, disponesse la riabilitazione o restituisse gli atti al consiglio notarile per una nuova deliberazione, previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 3, della legge n. 89 del 1913, nella parte cui, per i reati ivi indicati, non consente la riabilitazione, indipendentemente dalle circostanze, dal tempo trascorso e dalla condotta del notaio, anche dopo che questi abbia conseguito la piena riabilitazione penale.
Tanto premesso, il giudice rimettente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 3, della legge n. 89 del 1913, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
Quanto alla rilevanza, il giudice a quo ritiene che la corte d’appello sia tenuta a esercitare il proprio controllo formale di omologazione nei confronti non solo dei provvedimenti di accoglimento, ma anche di quelli di rigetto della richiesta di riabilitazione. Una diversa interpretazione del comma 2 dell’art. 159 della legge n. 89 del 1913 comporterebbe, infatti, una violazione dell’art. 3 Cost., perché i profili pubblicistici della professione richiedono necessariamente il controllo di legalità su tutti i provvedimenti inerenti alla riabilitazione di un notaio.
Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la preclusione assoluta della riabilitazione, nell’ipotesi di condanna per taluni delitti tassativamente indicati, si ponga in contrasto con le finalità della rieducazione e del recupero morale e sociale del condannato ai fini del suo reinserimento nella vita civile (art. 27, terzo comma, Cost.), precludendo ogni potere di apprezzamento del comportamento tenuto dal notaio dopo l’esecuzione della pena, della sua inclinazione a delinquere, del suo ravvedimento e dell’intervenuta riabilitazione penale.
L’art. 159, comma 3, impugnato, sarebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost., apparendo irragionevole che il consiglio notarile debba escludere la riabilitazione alla professione, senza alcun margine di discrezionalità che consenta di applicare il principio generale di graduazione della sanzione alla gravità del reato e di valutare la compatibilità tra la condanna e l’esercizio della professione notarile, tenuto anche conto dell’eventuale provvedimento di riabilitazione penale.
2.- Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, nel merito, infondata.
La difesa statale rileva, anzitutto, che la legge non prevede alcun giudizio di omologazione della delibera di rigetto della domanda di riabilitazione e che, di conseguenza, c’è un difetto di competenza del giudice rimettente.
Nel merito, a parere dell’Avvocatura generale, sarebbe innegabile che la professione del notaio rappresenti una funzione pubblica caratterizzata dalla fiducia che determina nel pubblico, anche perché i modi di accesso e di permanenza nell’esercizio delle funzioni sono garantiti e vigilati dallo Stato, attraverso il consiglio notarile.
La tassatività della preclusione relativa alla riabilitazione, prevista dalla disposizione censurata, sarebbe dettata proprio per garantire la funzione fidefacente del notaio ed evitare che, attraverso una valutazione discrezionale, lo stesso sia rimesso nell’esercizio di funzioni di cui si è dimostrato non degno in conseguenza della commissione di gravi reati.
La norma, del resto, non minerebbe la funzione rieducativa della pena (che non legittimerebbe un diritto al ripristino dello status quo ante), dato che non preclude al condannato di accedere a un lavoro diverso da quello da cui è decaduto.
3.- Si è costituito il notaio, già parte del giudizio a quo, il quale ha chiesto che la questione sia accolta.
La parte privata rileva che, secondo la legge notarile vigente, la destituzione del notaio può conseguire a determinate condanne penali, ma solo all’esito di un procedimento disciplinare che abbia valutato l’effettiva gravità dei fatti. Al riguardo, ricorda come questa Corte, con la sentenza n. 40 del 1990, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina che prevedeva la destituzione di diritto del notaio a seguito di condanna penale. Lo stesso principio dovrebbe trovare applicazione anche per la norma impugnata, ove l’automatismo concerne il divieto di riabilitazione all’’esercizio professionale, senza consentire quella «autonoma valutazione» prescritta per la destituzione.
La parte privata sottolinea, inoltre, che questa Corte ha sempre ritenuto lesivi del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) gli automatismi normativi che facciano discendere privazioni di diritti fondamentali o altre conseguenze negative di status, in via assoluta, permanente e irreversibile, da una condanna penale già eseguita, senza che sia dato alcun rilievo all’intervenuta riabilitazione penale e senza che sia consentito prendere in esame la condotta e le circostanze successive alla condanna medesima. Il divieto assoluto e senza limiti di tempo della riabilitazione professionale del notaio destituito in seguito a una condanna per determinati reati sarebbe dunque irragionevole, comportando una sorta di «ergastolo professionale», senza alcuna possibilità di «liberazione», anche dopo che gli effetti penali della condanna sono stati cancellati dalla riabilitazione.
La ratio delle misure riabilitative si fonderebbe proprio sul presupposto che il reo non deve mai essere considerato, in modo assoluto, incapace e insuscettibile di emenda, per cui il decorso del tempo dopo l’espiazione della pena e la prova di aver compiuto un percorso di risocializzazione devono consentire la rimozione dei residui effetti della condanna.
Una disciplina che configuri un divieto assoluto e permanente di riabilitazione professionale, anche quando sia intervenuta la cessazione degli effetti penali della condanna, contrasterebbe inevitabilmente con il principio di ragionevolezza. L’assolutezza del divieto, implicante l’automatico rigetto dell’istanza di riabilitazione, in presenza di determinate condanne e senza alcun apprezzamento del singolo caso, si porrebbe in contrasto, altresì, con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che richiede una siffatta valutazione ai fini del rispetto dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (sentenza 23 marzo 2006, Vitiello contro Italia).
Da ultimo, la difesa della parte privata rimarca la lesione del principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) dato che, nella specie, il notaio, penalmente riabilitato, pur avendo dimostrato con la propria condotta protratta nel tempo di meritare la piena risocializzazione, trova, sotto il decisivo aspetto dell’attività professionale, un ostacolo insormontabile nell’art. l59, comma 3, della legge n. 89 del 1913. L’ordinamento manifesterebbe così un’intrinseca contraddizione: da un lato la riabilitazione penale del condannato è pienamente accertata, dall’altro egli rimane oggetto di una limitazione che ne impedisce il pieno rientro nella società.
4.- Nell’imminenza dell’udienza pubblica la parte privata ha depositato una memoria, con cui insiste nel sostenere la fondatezza della questione di legittimità costituzionale. In particolare rileva che la norma impugnata introduce una presunzione assoluta, arbitraria ed irrazionale, e contesta l’eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura generale dello Stato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Con ordinanza del 13 novembre 2014 (r.o. n. 261 del 2014), la Corte d’appello di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), nella parte in cui vieta la riabilitazione del notaio già destituito a seguito di condanna per taluni reati.
Il giudice a quo è stato investito dal Consiglio notarile di Milano di una domanda concernente l’omologazione del rigetto dell’istanza di riabilitazione di un notaio, condannato in via definitiva per uno dei reati indicati dall’art. 159, comma 3, della legge n. 89 del 1913 e destituito. In questo caso la norma impugnata non consente di riabilitare la persona per rimuovere gli ostacoli a un nuovo accesso alla professione. La riabilitazione, viceversa, può essere concessa in altri casi, ai sensi dell’art. 159, comma 1, della legge n. 89 del 1913.
La Corte rimettente premette motivatamente di avere competenza, ai sensi dell’art. 159, comma 2, della legge n. 89 del 1913, in ordine all’omologazione, sia delle delibere del consiglio notarile che riabilitano il notaio, sia di quelle che ne respingono la richiesta.
Ciò detto, la disposizione impugnata viene censurata con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., perché introdurrebbe un automatismo legale che in ogni caso fa divieto al consiglio notarile di riabilitare il notaio già destituito a seguito di condanna per i reati di falso, frode, abuso d’ufficio, concussione, corruzione, furto, appropriazione indebita aggravata, peculato, truffa e calunnia. In tal modo il legislatore avrebbe irragionevolmente impedito la «graduazione della sanzione alla gravità del reato» e avrebbe frustrato la finalità rieducativa della pena.
2.- L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione, sostenendo che la corte d’appello è competente solo per l’omologazione delle delibere del consiglio notarile che concedono la riabilitazione e non per il caso opposto, verificatosi nel processo principale.
L’eccezione non è fondata, posto che la motivazione contraria offerta dalla Corte rimettente e relativa alla sussistenza di un interesse pubblico che il giudice è chiamato ad apprezzare anche nel caso di diniego della riabilitazione, per quanto opinabile, è pur sempre non priva di plausibilità.
3.- Nel merito, la questione non è fondata.
Questa Corte, con la sentenza n. 40 del 1990, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ormai abrogato art. 139 della legge n. 89 del 1913, nella parte in cui prevedeva in via disciplinare la destituzione di diritto del notaio che fosse stato condannato per i reati indicati dall’art. 5, comma 1, numero 3), della medesima legge. In quell’occasione la Corte ha applicato il consolidato principio della sua giurisprudenza, secondo cui la sanzione disciplinare della destituzione dall’impiego pubblico o dall’esercizio di una professione va graduata, nell’ambito dell’autonomo procedimento a ciò preposto, secondo criteri di proporzionalità e adeguatezza al caso concreto, e non può pertanto costituire l’effetto automatico e incondizionato di una condanna penale (sentenze n. 2 del 1999, n. 363 del 1996, n. 220 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 158 del 1990, n. 971 del 1988 e n. 270 del 1986).
In seguito, l’art. 25 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), ha introdotto l’art. 142-bis nel corpo della legge n. 89 del 1913. Per effetto di questa disposizione, il notaio che sia stato condannato per uno dei reati indicati dall’art. 5, comma 1, numero 3), della medesima legge è soggetto, a seguito di procedimento disciplinare, ad una delle sanzioni previste dal successivo art. 147, ovvero alla censura, alla sospensione o, nei casi più gravi, alla destituzione, purché il fatto, oltre a costituire reato, integri anche gli estremi dell’illecito disciplinare e si riverberi in tal modo sugli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione notarile.
Ne consegue che il notaio è destituito soltanto in ragione di un ponderato e discrezionale apprezzamento dei fatti, dal quale si evinca, anche alla luce della loro elevata gravità, la necessità di precludergli l’ulteriore esercizio della professione.
È evidente, pertanto, che la sanzione disciplinare non è affatto indifferente ai profili peculiari del caso di specie, come sostiene il giudice a quo, ma viene al contrario calibrata con riferimento ad essi ed applicata solo nelle ipotesi estreme. Tra queste ultime, inoltre, soltanto una condanna per i reati selezionati dalla norma impugnata impedisce in ogni caso la riabilitazione, che è viceversa consentita ove la destituzione sia derivata dalla commissione di fatti penalmente rilevanti, ma puniti ad altro titolo.
La preclusione di cui si lamenta la Corte rimettente, in definitiva, congiunge il motivato giudizio dell’organo disciplinare, relativo alla considerevole gravità della condotta concretamente addebitata, con una tassativa predeterminazione, da parte del legislatore, del catalogo dei reati che ostano alla riabilitazione. Questi illeciti sono stati selezionati, nell’ambito della vasta area del diritto penale, individuando fatti che in linea astratta sono suscettibili di spezzare la fiducia che la collettività ripone nel corretto esercizio delle pubbliche funzioni attribuite al notaio.
L’astrattezza di un simile criterio, già temperata dalla rigorosa delimitazione delle ipotesi applicative, trova un rilevante correttivo nel giudizio dell’organo disciplinare, che infligge la destituzione, anche in conseguenza dei reati indicati dall’art. 159, comma 3, della legge n. 89 del 1913, soltanto se ciò è richiesto dal peculiare episodio della vita. Tale giudizio così è sottratto alla «molteplicità dei comportamenti possibili nell’area dello stesso illecito penale» (sentenza n. 16 del 1991) per essere riconsegnato alla dimensione individualizzante che è richiesta dal principio di uguaglianza.
Il divieto che la disposizione impugnata oppone alla riabilitazione, pertanto, non può ritenersi manifestamente irragionevole a causa dell’automatismo legale che introduce, perché opera soltanto se si è ritenuta in concreto congrua, per i limitati casi oggetto di tipizzazione normativa, una sanzione disciplinare che comporta la definitiva destituzione del notaio.
Si può aggiungere, benché tale profilo non sia oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, che per la medesima ragione tale divieto non trova ostacoli nella consolidata interpretazione che la Corte europea dei diritti dell’uomo dà dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, poiché esso non è la conseguenza automatica di un fatto, cui la legge riconnette effetti lesivi del diritto della persona a svolgere un’attività professionale. La compressione di tale diritto deriva dal giudizio disciplinare, è la conseguenza di un’accertata incompatibilità tra la condotta e la professione, è impugnabile in sede giurisdizionale, ed è ritenuta dalla legge necessaria per preservare l’integrità della funzione notarile, che sarebbe compromessa ove i consociati potessero anche solo dubitare dell’affidabilità di chi è preposto a certificarne gli atti con valore di pubblica fede.
4.- Non sono utili a sostenere il dubbio del giudice rimettente neppure le pronunce con cui questa Corte ha dichiarato illegittime disposizioni legislative che impedivano la partecipazione a concorsi nel pubblico impiego a chi fosse stato in precedenza destituito dalla pubblica amministrazione.
Con la sentenza n. 329 del 2007 una disposizione di tale natura è stata reputata incostituzionale, posto che l’effetto preclusivo discendeva dalla destituzione per fatti eterogenei «(dalle varie fattispecie di reato in tema di falsità alla produzione di documenti viziati da invalidità non sanabile)» e, ciò che più conta, operava con riferimento a qualsivoglia altro impiego pubblico. Veniva in tal modo a mancare un nesso indissolubile di incompatibilità tra la condotta per la quale era stata inflitta la sanzione e la natura delle mansioni che il candidato al concorso avrebbe espletato, ove vincitore. È invece evidente che la disposizione oggi censurata si rende espressiva di un simile legame, giacché la riabilitazione del notaio sarebbe finalizzata a consentire nuovamente l’accesso proprio alla professione da cui esso è stato destituito.
Con la sentenza n. 408 del 1993, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di partecipare a concorsi, banditi dall’Amministrazione civile dell’interno per coprire una qualunque delle mansioni affidate ai suoi dipendenti, per chi fosse stato condannato a pena detentiva per reati non colposi. La norma è stata raggiunta dalla declaratoria di illegittimità costituzionale, nella parte in cui non prevedeva il potere dell’amministrazione di valutare, ai fini dell’ammissione al concorso, l’intervenuta riabilitazione del reo.
Questa ipotesi si distingue nettamente da quella per cui oggi pende il giudizio incidentale, a causa dell’estrema latitudine dei casi che originavano l’impedimento. Una condanna a pena detentiva per reato non colposo può riguardare infatti una moltitudine di condotte penalmente rilevanti, e non vi è alcuna necessità logica di far discendere da esse un giudizio di inadeguatezza allo svolgimento di qualsiasi mansione presso l’Amministrazione civile dell’interno. In senso opposto, la disposizione impugnata opera proprio sulla base di un tal genere di giudizio, consolidato in una previsione di legge.
È poi significativo che la sentenza n. 408 del 1993 abbia precisato, pur a fronte della riabilitazione del reo, che l’amministrazione avrebbe dovuto in ogni caso valutare tale evenienza «in tutti i suoi elementi, con riferimento particolare alla qualifica ed alle mansioni da espletare in base al concorso». La precisazione smentisce l’assunto del giudice rimettente, che pretende di connettere alla riabilitazione l’effetto di rimuovere ogni preclusione legislativa all’esercizio dell’attività lavorativa o della professione, posto che altrimenti, si dice, sarebbe leso l’art. 27, terzo comma, Cost., quanto alla finalità rieducativa della pena.
Al contrario, infatti, questa Corte, con l’indicazione appena rammentata, ha riconosciuto che anche la persona che sia stata riabilitata può continuare ad essere estromessa, non già dal pubblico impiego in sé, ma da particolari e qualificate mansioni che l’ordinamento considera di grande rilievo e intende conseguentemente preservare con penetranti cautele.
Che ciò avvenga a seguito di una insuperabile previsione normativa, anziché all’esito di un procedimento amministrativo, non pone in discussione la conformità a Costituzione della causa ostativa, a fronte della riabilitazione del reo, ma esige piuttosto di verificare che la presunzione formulata dal legislatore non rientri nell’ambito della manifesta irragionevolezza.
Ciò però non accade.
È vero che la disposizione impugnata non permette un apprezzamento in concreto della compatibilità della riabilitazione con un nuovo accesso alla professione notarile, ma resta chiaro che la conformità di questa scelta legislativa agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. non può venire contestata con l’argomento che chi si sia riabilitato deve reputarsi per ciò stesso idoneo a svolgere qualsiasi attività di rilievo sociale, venendo invece in considerazione anche la natura di tali attività e il grado degli interessi cui esse sono finalizzate.
Il legislatore, con la disposizione impugnata, ha formulato una presunzione assoluta che non è affatto arbitraria e irrazionale perché consegue, giova ribadirlo, a un motivato apprezzamento dell’organo disciplinare, censurabile in sede giurisdizionale e circoscritto a peculiari condotte. Non è infatti manifestamente irragionevole presumere che tali condotte, se così gravi da implicare la destituzione, abbiano definitivamente negato al notaio, per quanto riabilitato, quel particolare ed elevato grado di fiducia che i consociati debbono poter incondizionatamente riporre in una figura destinata a garantire la sicurezza dei traffici giuridici, a propria volta preminente interesse dello Stato di diritto.
La finalità di reinserimento sociale di chi abbia espiato la pena, pur dotata di forza pregnante, non vale in sé ad incrinare, con riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., la legittimità dell’opzione effettuata dalla legge a tutela di questo interesse pubblico, anch’esso di rilievo costituzionale, tenuto anche conto che varie sono le vie per conseguirla, senza obbligare necessariamente il legislatore a concedere la riabilitazione professionale (sentenza n. 289 del 1992).
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Milano, con l’ordinanza indicata in epigrafe.