Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 2 ottobre 2018, n. 23950
Corte di Cassazione, I sezione civile, ordinanza 2 ottobre 2018, n. 23950
Società di capitali che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio – Azioni proprie – computo ai fini sia del quorum costitutivo e deliberativo
In forza del d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224, che ha modificato l’art. 2357-ter, comma 2, cod. civ., nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono incluse nel computo ai fini sia del quorum costitutivo, sia del quorum deliberativo.
Corte di Cassazione, Sezione 1, Sentenza 02-10-2018, n. 23950
FATTI DI CAUSA
La sentenza della Corte d’appello di Roma del 5 ottobre 2016, in riforma della decisione di primo grado, ha annullato la deliberazione dell’assemblea ordinaria della Sa. Co. s.p.a. del 23 giugno 2011, assunta in seconda convocazione con il voto favorevole del 47% circa del capitale sociale, la quale aveva approvato il bilancio d’esercizio chiuso al 31 dicembre 2010 e deciso la distribuzione degli utili conseguiti.
La corte territoriale ha ritenuto che: a) con riguardo all’eccezione di carenza dell’interesse ad agire – deducibile in ogni stato e grado del giudizio – esso sussiste per l’azione di annullamento della deliberazione per mancato raggiungimento della maggioranza necessaria, in ragione della situazione di incertezza in ordine ai corretti criteri di calcolo della stessa in presenza di azioni proprie, eliminabile proprio con il ricorso al giudice; b) nel quorum deliberativo, che l’art. 2369, comma 3, cod. civ. indica nella maggioranza semplice del capitale intervenuto in assemblea, si devono ricomprendere le azioni proprie, detenute dalla società nella misura del 10°/o del capitale sociale, ai sensi del nuovo art. 2357-ter, comma 2, cod. civ., in cui il termine “capitale” è stato sostituito con quello più ampio di “maggioranze”.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Sa. Co. s.p.a., sulla base di quattro motivi.
Resistono con controricorso gli intimati. Le parti hanno depositato le memorie di cui all’art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
l. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce la nullità della sentenza, per violazione degli artt. 112, 329, 342 e 346 cod. proc. civ., avendo la corte territoriale annullato la deliberazione assembleare di distribuzione degli utili, sebbene si fosse al riguardo formato il giudicato interno ed in violazione del principio di corrispondenza del chiesto al pronunciato, dal momento che l’atto di appello ha chiesto l’annullamento solo della deliberazione di approvazione del bilancio.
Con il secondo motivo, deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 1444, 2377 cod. civ. e 100 cod. proc. civ., avendo la sentenza impugnata riconosciuto l’interesse ad agire degli impugnanti, laddove questi avevano sia escluso di far valere i vizi del bilancio, sia dato volontaria esecuzione alla deliberazione, percependo gli utili distribuiti, con gli effetti della convalida tacita del negozio annullabile; né è pertinente il richiamo all’interesse ad agire nelle azioni di accertamento, trattandosi di azione costitutiva di annullamento.
Con il terzo motivo, deduce la nullità della sentenza, avendo la corte del merito accolto una domanda abusivamente proposta, in quanto intrapresa senza far valere vizi propri del bilancio ed in presenza della volontaria esecuzione alla delibera mediante la percezione dei dividendi, dunque al solo scopo di ottenere una pronuncia di accertamento delle corrette modalità di calcolo delle azioni proprie ai fini dei quorum assembleari.
Con il quarto motivo, deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2357-ter, comma 2, e 2369, comma 3, cod. civ., in quanto le azioni proprie non devono computarsi nel quorum deliberativo ove la base di calcolo sia il capitale rappresentato, non quello sociale, pena il rischio di stallo assembleare ed integrazione di causa di scioglimento della società
2. – Va dichiarata inammissibile la produzione, ad opera di entrambe le parti, di contrapposti pareri pro veritate, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., del quale non è integrata la fattispecie.
3. – Il primo motivo è infondato. Dall’esame dell’atto di appello, ammissibile in virtù della natura del vizio denunziato, risulta che l’appellante chiese la riforma della sentenza impugnata e l’annullamento della deliberazione in data 23 giugno 2011, aggiungendo fosse quella «di approvazione del bilancio al 31 dicembre 2010».
Nonostante l’espressione finale apparentemente restrittiva, nulla nel corpo dell’atto autorizza a ritenere che si sia voluto impugnare solo una delle due decisioni assunte nell’assemblea del 23 giugno 2011, al contrario l’intero contenuto del medesimo palesando che non vi fu abbandono di una delle domande – dovendo, invero, considerarsi assunte due distinte deliberazioni, sia pure uno actu – e che, anzi, fu riproposto il complessivo impianto difensivo esposto in primo grado, con evidente ed inequivoca pari estensione del giudizio d’appello.
4. – Il secondo motivo è infondato. La qualificazione della “percezione degli utili” – seguita alla deliberazione di approvazione del bilancio e di distribuzione dei dividendi – come negozio tacito di convalida delle precedenti decisioni, per il fatto che i soci di minoranza avrebbero palesato la loro intenzione di non impugnare il bilancio per i vizi di redazione, non coglie nel segno, per diversi ordini di ragioni.
4.1. – L’impugnazione della delibera assembleare di approvazione del bilancio di esercizio può far valere così vizi procedimentali suoi propri, come vizi di contenuto del bilancio approvato. Questa ovvia considerazione è confermata, quale dato positivo, dall’art. 2434-bis cod. civ., che menziona le «azioni previste dagli articoli 2377 e 2379»: dunque, sia l’azione di annullamento, sia quella di nullità, noto essendo il principio che i vizi propri della redazione in sé del bilancio integrano quest’ultima. Ne deriva che l’interessato può ben agire – in presenza di una deliberazione assembleare che presenti entrambe le categorie dei vizi menzionate – unicamente con l’una o con l’altra azione, senza che per questo possa ritenersi insussistente l’interesse alla medesima, di cui all’art. 100 cod. proc. civ.
4.2. – Né detto interesse viene meno per l’avvenuta percezione degli utili, di cui sia decisa la distribuzione, condotta che non può valere come convalida tacita della deliberazione viziata: specie in presenza della dichiarazione del socio, in sede assembleare, di voto contrario all’approvazione del bilancio per vizi che inficino il documento contabile ovvero il procedimento della deliberazione che lo approva. Le deliberazioni di approvazione del bilancio e di distribuzione degli utili costituiscono atti distinti, sia pure contestuali e legati da vincolo di dipendenza, nel senso che la seconda, ove la prima sia contraria alla legge o all’atto costitutivo, ne risulta viziata da invalidità derivata; pertanto, una volta caducata la deliberazione di approvazione del bilancio e quella consequenziale di distribuzione degli utili, il pagamento relativo diviene indebito, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ. Il socio è legittimato ad impugnare la prima deliberazione, esponendosi per ciò solo, quanto alla seconda, alle conseguenze di legge: senza che, tuttavia, la percezione degli utili sia di per sé causa impediente di quell’impugnazione o che essa, pur nella consapevolezza in capo al socio circa l’invalidità della prima deliberazione, integri gli estremi di una convalida tacita della medesima. Per i vizi di annullabilità, la legge legittima all’impugnazione solo il socio assente, dissenziente o astenuto, non il socio che abbia votato a favore (art. 2377, comma 2, cod. civ.): ma, appunto, questo attiene al regime della legittimazione ad impugnare, non alla sanatoria del vizio. Se egli sia legittimato ad impugnare la deliberazione, non perde tale diritto per il fatto che abbia ricevuto gli utili a seguito di deliberazione di approvazione del bilancio e di distribuzione dei medesimi assunta senza il suo consenso. E di sicuro ciò non si verifica laddove il socio, in sede assembleare, abbia manifestato i propri rilievi critici al bilancio contestualmente approvato, a valere quale anticipata protestatio: sufficiente di per sé a elidere il valore di dichiarazione tacita di volontà abdicativa con riguardo alla condotta di percezione degli utili, risultanti dal bilancio e distribuiti ai soci.
5. – Il terzo motivo è infondato. Le precedenti osservazioni inducono al rigetto, altresì, del motivo, posto che né il mancato esercizio dell’azione di nullità per i vizi di redazione del bilancio de quo, né la percezione degli utili integrano i presupposti per qualificare come abusiva l’azione intrapresa dai soci di minoranza. L’abuso del processo – quale controllo sull’atto di esercizio del diritto di azione – presuppone, al pari dell’abuso del diritto come categoria generale, una deviazione nell’esercizio del diritto rispetto allo “scopo” per il quale è stato attribuito in contrasto con la buona fede (criterio che meglio si presta a ricomprenderne altri pure proposti, come l’intenzione esclusiva di nuocere o la sproporzione tra l’interesse perseguito e quello sacrificato). Esso, dunque, ricorre quando il giudizio, in violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede, nonché dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, viene utilizzato a fini dilatori o per ottenere un beneficio connesso alla sua pendenza, in assenza di intenti reali diversi dall’uso strumentale ed opportunistico del medesimo, ovvero quando venga esercitato il proprio diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale. Si tratta di principi che questa Corte ha ribadito in più fattispecie: così, in tema di lite temeraria ex art. 96, comma 3, cod. proc. civ. (ad es. Cass., sez. un., 1° aprile 2015, n. 6606); di domanda di concordato preventivo, al fine di differire la dichiarazione di fallimento (Cass., sez. un., 15 maggio 2015, nn. 9936 e 9936, Cass. 7 marzo 2017, n. 5677, ed altre); di frazionamento soggettivo delle azioni in giudizio (Cass. 6 settembre 2017, n. 20834; 30 aprile 2014, n. 9488; 3 maggio 2010, n. 10634); di frazionamento oggettivo del credito (Cass. 11 marzo 2016, n. 4867; 9 marzo 2015, n. 4702; 22 dicembre 2011, n. 28286; sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726); di condono fiscale e presupposto della «lite pendente» (Cass. 21 settembre 2016, n. 18445; 22 gennaio 2014, n. 1271, ed altre). In sostanza, se l’abuso del processo si riscontra in presenza della violazione del canone della correttezza e della deviazione dal suo scopo tipico, la situazione resta del tutto estranea al caso in esame, onde non ha errato sul punto l’impugnata decisione.
6. – Il quarto motivo è infondato. Le azioni proprie sono da sempre viste con particolare cautela dal legislatore, in quanto esse hanno influenza, da un lato, sulla struttura finanziaria e sull’effettività del capitale (onde la società che acquista azioni proprie è ora obbligata all’iscrizione nel passivo del bilancio di una specifica voce, con segno negativo, ai sensi dell’art. 2357-ter, comma 3, introdotto dal d.lgs. 18 agosto 2015, n. 139, in vigore dal 1° gennaio 2016); dall’altro lato, quanto agli equilibri interni di potere, l’azionista di maggioranza mediante le azioni proprie potrebbe conquistare una posizione di controllo assoluto, mentre l’azionista di minoranza potrebbe bloccare le decisioni di una maggioranza inferiore alla metà più uno del capitale sociale.
6.1. – Si era già posta, in passato, la questione se, nelle assemblee delle società che hanno in portafoglio azioni proprie, queste debbano computarsi sempre nei quorum, anche deliberativi, oppure solo allorché la maggioranza sia determinata con riferimento al «capitale sociale», del quale indubbiamente tali azioni fanno parte, e non quando essa sia determinata in relazione al «capitale rappresentato dagli intervenuti».
Le incertezze del precedente dibattito erano legate alla formulazione dell’art. 2357-ter, comma 2, cod. civ., all’epoca vigente, risultante dal recepimento con il d.lgs. 10 febbraio 1986, n. 30, della seconda direttiva comunitaria in materia societaria (n. 77/91/CEE del Consiglio in data 13 dicembre 1976), il quale poneva la regola secondo cui le azioni proprie della società, il cui diritto di voto è sospeso, devono essere computate «nel capitale» ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea; ratio della sospensione del diritto di voto essendo quella di impedire agli amministratori di influire, mediante dette azioni, sulla formazione delle maggioranze.
Al riguardo, questa Corte aveva ritenuto che per «capitale» dovesse intendersi il capitale sociale, onde non si potessero qualificare le azioni proprie come azioni rappresentate o presenti in assemblea, perché la società, nonostante detenga proprie azioni, non può essere socia di se stessa, né componente di un proprio organo interno (con riguardo alla precedente disposizione, cfr. Cass. 16 ottobre 2013, nn. 23541 e 23540, secondo cui, in caso di assemblea ordinaria in prima convocazione, la maggioranza assoluta per deliberare va calcolata sul solo ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all’assemblea, senza tener conto delle azioni proprie di cui sia titolare la società).
6.2. – In forza del d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224, emanato in attuazione della delega di cui alla legge 25 febbraio 2008, n. 34, la soluzione di diritto positivo è diversa per le società chiuse e per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio: nelle prime, le azioni proprie sono in ogni caso incluse nel computo, a norma dell’art. 2357-ter, comma 2, cod. civ., mentre nelle seconde le azioni proprie sono incluse nel computo del quorum costitutivo ed escluse dal quorum deliberativo (art. 2368, comma 3, cod. civ.), in tal modo permettendo più agevolmente il raggiungimento della maggioranza per approvare la proposta assembleare.
Con il fine della certezza del diritto, proprio attesi i precedenti dubbi, il d.lgs. n. 224 del 2010 – oltre ad individuare un autonomo criterio per le società che ricorrono al mercato del capitale di rischio – con riguardo alle società azionarie chiuse ha modificato la formula: mantenendo la sospensione del diritto di voto, ma aggiungendo che «le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea». È stata espunta l’espressione «nel capitale», che aveva creato le passate divergenze, ed inserito l’espresso riferimento alle «maggioranze». Dunque, “computo”, quale operazione volta ad individuare il denominatore delle partecipazioni sociali rilevanti a tal fine; “calcolo”, come conteggio del numero dei presenti (nel quorum costitutivo) o dei voti favorevoli all’approvazione della deliberazione (nel quorum deliberativo), allorché raggiungano la quantità di azioni necessaria a ritenere l’assemblea regolarmente costituita o la proposta approvata.
Il denominatore è, di regola, pari al 100% del capitale sociale. Ma, in talune evenienze, esso si riduce per legge. Come quando, in relazione al controllo di regolare costituzione della riunione, esistano azioni prive del diritto di voto in assemblea ordinaria (art. 2368, comma 1, cod. civ.); o con riguardo ad azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto, ove esista una speciale disposizione di legge in tal senso (art. 2368, comma 3, cod. civ., nel suo esordio): le une e le altre non sono, allora, computate ai fini del quorum costitutivo e quel denominatore si riduce a meno del 100% del capitale sociale (dove, poi, la legge preveda l’esclusione dal denominatore di talune azioni con riguardo alla regolare costituzione dell’assemblea, ne deriva giocoforza l’esclusione anche dal quorum deliberativo, pur se la norma non lo dica espressamente: cfr. art. 2368, comma 1, cod. civ.).
In relazione al controllo sull’avvenuta approvazione della deliberazione, si dispone che le azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto e quelle degli astenuti in conflitto d’interessi non sono computate nel denominatore necessario al calcolo dell’avvenuta approvazione della deliberazione (cfr. art. 2368, comma 3, cod. civ., seconda parte).
Orbene, come espone la relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 224 del 2010, richiamata anche dalla sentenza impugnata, nelle società c.d. chiuse la nuova disposizione tiene conto dell’assenza di limiti all’acquisto delle proprie azioni, le quali – a fronte dell’esborso gravante sull’intera compagine sociale – «sono sempre computate ai fini del calcolo anche quando la legge non assume il capitale sociale a denominatore per il calcolo dei quorum assembleari» (così la Relazione). Ora, è vero che la relazione di accompagnamento non ha efficacia cogente, né tantomeno è, essa stessa, fonte del diritto; e, però, quando sia del tutto conforme all’enunciato ed al significato fatto palese dalla consecuzione delle parole usate (art. 12 preleggi), certamente può contribuire alla corretta interpretazione di una norma o di un combinato disposto normativo (la stessa Corte costituzionale sovente vi ricorre, quale ausilio all’interpretazione: cfr., a mo’ di esempio, Corte cost. 20 novembre 2017, n. 241; 15 febbraio 2017, n. 36; 14 luglio 2016, n. 174).
Ché poi, ove una norma, o un sistema di norme, si prestino a diverse interpretazioni, tutte plausibili, dovere primario dell’interprete, e specie del giudice, è di perseguire l’interpretazione più corretta e non una qualsiasi di quelle che il testo consente; certo essendo, altresì, che il giudice non crea il diritto, ma opera secondo i criteri ermeneutici noti ed entro i limiti del diritto positivo.
Ciò tanto più quando, come nel caso in esame, si tratti non di clausole generali o di concetti indeterminati, che debbano essere resi concreti al fine di segnarne l’operatività, ma di norme costruite mediante gli usuali elementi determinati – nel caso, sia di natura giuridica che del linguaggio comune – della fattispecie. Così, appunto, l’art. 2357-ter, comma 2, seconda parte, cod. civ.: «Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea».
Ai fini deliberativi, dunque, «maggioranze» come prevalenza dei voti favorevoli, derivante dal rapporto, o frazione matematica, il cui numeratore è dato dai voti di approvazione della proposta (nel loro valore nominale rappresentativo) e il denominatore dalle azioni presenti (escluse quelle che la legge sottrae dal medesimo ed incluse quelle che la legge impone siano considerate); «quote richieste» come evenienza che la legge pretenda, altresì, una percentuale data. La piana interpretazione della norma conduce quindi al computo, in ogni caso, al denominatore delle azioni proprie.
La ricorrente ricerca un diverso possibile risultato ermeneutico dell’enunciato o, addirittura, della stessa relazione accompagnatoria; tuttavia, il compito dell’interprete, come sopra esposto, non è la semplice ricerca di un appiglio letterale cui ancorare una qualsiasi Ar-) interpretazione plausibile, quanto la ricerca dell’interpretazione più «corretta» (e, per la Corte, v. l’art. 65 ord. giud.).
Il dettato normativo vigente è nel senso che, nelle società per azioni che non ricorrono al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie debbano essere sempre conteggiate nel calcolo non dei soli quorum assembleari costitutivi, ma anche di quelli deliberativi: la nuova disposizione, invero, non lega affatto il calcolo alla diversa circostanza se la base per il medesimo sia il capitale sociale oppure quello rappresentato in assemblea, imponendo di calcolare in ogni caso le azioni proprie. La ratio è di impedire che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri fra i soci, e più in generale che non ne risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale. Ne deriva che le maggioranze necessarie per l’assunzione della deliberazione dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione nella società per azioni occorre il voto favorevole di almeno la metà del capitale rappresentato dai soci intervenuti (art. 2369, comma 3, cod. civ.), ivi computate le azioni proprie.
6.3. – Non è dirimente l’obiezione, secondo cui in tal modo potrebbe verificarsi la paralisi assembleare: in quanto, se è vero che l’agilità di funzionamento dell’organismo societario costituisce un principio espresso dal sistema che lo disciplina, esso non giunge ad impedire, ad esempio, che possa costituirsi una società, anche di capitali, a partecipazione paritetica di due soci o di due gruppi di soci: essendo allora, in definitiva, ai medesimi rimessa la scelta se accettare il rischio, in presenza di dissidi insanabili, che venga eventualmente integrata la fattispecie della impossibilità di funzionamento dell’organo assembleare.
Vero è l’opposto: dato il senso letterale non confutabile del nuovo art. 2357-ter cod. civ., e pure in assenza di limiti attuali all’acquisto di azioni proprie ex art. 2357 cod. civ., potrebbe semmai domandarsi se sia da reputare non consentito l’acquisto da parte della società delle proprie azioni, che, in una situazione concreta data, impedisca stabilmente la formazione di una maggioranza nell’assemblea ordinaria (è questione analoga a quella della legittimità della clausola di unanimità per le deliberazioni assembleari: una volta che essa si reputasse illegittima, ci si chiede se debba essere ritenuta tale anche una clausola che richieda una maggioranza talmente elevata, attesa la proporzione rispettiva dei soci, da impedire stabilmente il formarsi della maggioranza); questione però estranea al thema decidendum.
6.4. – Nella memoria, parte ricorrente rileva il contrasto dell’art. 2357-ter, comma 2, cod. civ. con la direttiva 1977/91/CEE, consolidata nella direttiva 2017/1132/UE del 14 giugno 2017, il cui art. 63, comma 1, lett. a) prevede che il diritto di voto delle azioni proprie sia «sospeso». Rileva, altresì, l’incostituzionalità della disposizione, ove intesa nel senso che le azioni proprie siano sempre computate ai fini del calcolo del quorum deliberativo, in quanto essa si presenterebbe come irragionevole.
Non ritiene il Collegio che la disposizione in discorso si ponga in contrasto con la normativa comunitaria, né che la scelta del legislatore si presenti come incostituzionale.
Ai sensi dell’articolo menzionato, il diritto di voto è sospeso nelle azioni proprie, onde il precetto eurounitario, che ha di mira la tutela degli azionisti, è rispettato. La regola interna, quindi, osserva il precetto della sospensione del voto; senza considerare che nulla la direttiva prescrive in tema di computo delle azioni proprie, ma con essa appare coerente il precetto interno, nelle diverse evenienze contribuendo esso a renderle neutrali ai fini del calcolo delle maggioranze.
Né la previsione del loro computo nel calcolo delle maggioranze confligge con le superiori disposizioni.
Premesso che i concetti di maggioranza e minoranza assembleare si determinano al momento della formazione dei quorum e non preesistono ad essi, né la singola e particolare conformazione di una data compagine societaria può condizionare un’interpretazione normativa generale, la ratio della regola sancita dal legislatore è nel senso di compiere un’opzione quanto più neutrale possibile con riguardo al peso delle azioni proprie a voto sospeso, evitando che la cessione delle medesime alla società, per scelta dell’organo amministrativo espressione del socio di comando (sia pure previa autorizzazione dell’assemblea, dunque ancora di chi sia in grado di esprimere la maggioranza), possa essere decisa per avvantaggiare solo questi e lasciarne inalterato il ruolo di controllo, pur se compiuta con le risorse finanziarie della società nel suo complesso.
Non esistendo, nelle società chiuse, il limite al possesso delle azioni proprie — a differenza che nelle società aperte, dove infatti vige la regola opposta — il principio del computo ai fini delle maggioranze deliberative diminuisce il rischio di concentrazione surrettizia del potere di voto in capo alla gruppo di comando. Se le azioni proprie potessero votare, il voto sarebbe espresso dalla società, quindi dai suoi amministratori, quindi ancora secondo gli intendimenti della maggioranza che li ha nominati.
Per questa ragione, il legislatore ha sottratto a queste azioni (temporaneamente, non trattandosi di categoria autonoma) il diritto di votare.
Ma esse restano nel capitale sociale, onde valgono ai fini della regolare costituzione dell’assemblea; mentre, quale regola di migliore approssimazione ad un principio di neutralità astratta, le azioni vengono parimenti computate nel quorum deliberativo, al fine di evitare che se ne disponga l’acquisto preordinando il medesimo, appunto mediante l’eventuale regola di scomputo da detto quorum, a favorire il socio di controllo.
La scelta del legislatore non appare dunque affatto irragionevole.
7. – In conclusione, il ricorso va respinto, con affermazione del seguente principio di diritto: «In forza del d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224, che ha modificato l’art. 2357-ter, comma 2, cod. civ., nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono incluse nel computo ai fini sia del quorum costitutivo, sia del quorum deliberativo».
8. – Le spese di lite sono compensate fra le parti, per la novità della questione alla luce della novella.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa per intero fra le parti le spese di legittimità. Dichiara che, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 1p giugno 2018.