Corte di Cassazione

29 Aprile 2019

Cass. Civ., Sez. I, sentenza 18 maggio 2015, n. 10087

Corte di Cassazione, I Sezione civile, sentenza 18 maggio 2015, n. 10087

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Presidente Ceccherini

Estensore Didone

Ha pronunciato la seguente:

Sentenza n. 10087 dep. il 18 maggio 2015.

Ragioni in fatto e in diritto della decisione

1.- Con contratto preliminare sottoscritto in data 2 aprile 2007, registrato in data 13 aprile 2007, l’avvocato A.C. si è impegnato ad acquistare dalla s.r.l. Aurelia Immobiliare un’autorimessa per il prezzo di euro 38.000, versando contestualmente la somma di euro 19.000 a titolo di caparra confirmatoria. Il contratto prevedeva che l’ulteriore somma di euro 13.000, oltre IVA, sarebbe stata versata dal promissario acquirente entro il 30 luglio 2007, mentre il saldo di euro 6.000, oltre IVA, sarebbe stato erogato al momento della stipula del contratto definitivo, cioè entro il 28 febbraio 2008.

Il contratto preliminare è stato successivamente confermato e rinnovato ai fini della trascrizione con atto in data 29 ottobre 2007, autenticato dal notaio.

Con atto notificato in data 3 marzo 2008, trascorso inutilmente il termine del 28 febbraio 2008 per la stipulazione del rogito, A.C. ha esercitato il diritto di recesso, ai sensi dell’articolo 1385, secondo comma, cod. civ., chiedendo la restituzione dell’importo di euro 38.000, pari al doppio della caparra versata, nonché della somma di euro 14.300 relativa all’acconto prezzo. Intervenuto il fallimento della società promittente venditrice, il C. ha insinuato al passivo il proprio credito che è stato ammesso per la somma corrispondente alla caparra confirmatoria ed all’acconto prezzo mentre per quanto ancora interessa – è stato escluso dal giudice delegato il credito di euro 19.000, pari al danno predeterminato conseguente alla dazione della caparra.

Con il provvedimento impugnato (depositato il 4.3.2009) il Tribunale di Monza ha rigettato l’opposizione proposta dal C.. 
In estrema sintesi il giudice del merito ha rilevato che la pronuncia di risoluzione contrattuale ex articolo 1456 cod. civ. è, infatti, opponibile al fallimento solo quando sia stata “quesita” prima della relativa dichiarazione, attraverso la trascrizione della domanda giudiziale per effetto del combinato disposto degli articoli 2915 cod. civ. e 45 legge fallimentare (Cass. 9 dicembre 1998 n. 12396).

Nella fattispecie, la pretesa risarcitoria fondata sul presupposto dell’avvenuta risoluzione del contratto anteriormente al fallimento era stata proposta non nei confronti della società in bonis e poi proseguita contro il fallimento, bensì direttamente verso quest’ultimo dopo la dichiarazione di fallimento, sia pur in relazione ad un inadempimento anteriore. L’esercizio del recesso ex art. 1385 cod. civ., effettuato prima della sentenza dichiarativa di fallimento, era privo di effetti rispetto ai creditori in quanto non posto a base di una successiva domanda giudiziale, trascritta prima della dichiarazione di fallimento, o di un altro atto seguito dalle formalità necessarie per renderlo opponibile ai terzi. 
1.1.- Contro il decreto del tribunale il C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Non ha svolto difese la curatela intimata.

Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c. parte ricorrente ha depositato memoria.
2.1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di norme di diritto e formula – ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis – un pertinente quesito. Deduce che, allorquando in un contratto a prestazioni corrispettive sia pattuita la caparra confirmatoria ai sensi dell’art. 1385 c.c., l’effetto risolutorio del contratto previsto nel secondo comma dell’art. 1385 c.c. deriva dalla legge per effetto della dichiarazione della parte non inadempiente rivolta ad avvalersi del diritto di recesso ex art. 1385, secondo comma, c.c., come pure nel caso in cui sia pattuita clausola risolutiva espressa l’effetto risolutorio consegue di diritto alla dichiarazione della parte che intende avvalersi della clausola risolutiva espressa ai sensi dell’art 1456, secondo comma, c.c., pertanto la domanda della parte non inadempiente rivolta ad ottenere il doppio della caparra confirmatoria versata è da qualificarsi quale domanda di condanna, mentre non è necessaria la proposizione di domanda giudiziale al fine di determinare la risoluzione del contratto, che si produce per effetto del recesso.

2.2.- Con il secondo motivo denuncia violazione di norme di diritto e deduce, in sintesi, che, nel caso di recesso ex art. 1385 c.c., come nel caso di dichiarazione rivolta ad avvalersi della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., gli effetti costitutivi rappresentati dallo scioglimento del vincolo contrattuale sono da ricollegarsi all’atto stragiudiziale con il quale la parte non inadempiente comunica all’altra parte lo scioglimento del vincolo. 
Formula un pertinente quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. e deduce che le disposizioni degli artt. 2915 c.c. e 45 l. fall. comportano che allorché il promissario acquirente di un immobile in possesso del promissario venditore fallito abbia esercitato il recesso ex art 1385 c.c., la pretesa alla restituzione del doppio della caparra versata è opponibile ai creditori concorrenti nel fallimento del promissario venditore a condizione che l’atto di recesso abbia data certa anteriore al fallimento, mentre non è necessaria la trascrizione di domanda di risoluzione in quanto tale trascrizione non è prevista dall’art. 2652 c.c.

2.3.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione senza formulare la prescritta sintesi del fatto controverso ex art. 366 bis c.p.c.

3.- Osserva la Corte che, mentre il terzo motivo deve essere dichiarato inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., i primi due motivi – esaminabili congiuntamente – sono fondati. 
Invero, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, l’azione di risoluzione del contratto ex art. 1456 cod. civ. tende ad una pronuncia di mero accertamento dell’avvenuta risoluzione di diritto a seguito dell’inadempimento di una delle parti previsto come determinante per la sorte del rapporto, in conseguenza dell’esplicita dichiarazione dell’altra parte di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, differendo tale azione da quella ordinaria di risoluzione per inadempimento per colpa ex art. 1453 cod. civ., che ha natura costitutiva. Ne consegue che, in caso di fallimento del locatario, l’effetto risolutivo del contratto (nella specie, di locazione finanziaria) deve ritenersi già verificato ove la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa sia stata comunicata anteriormente alla data della sentenza di fallimento, spettando il relativo accertamento al giudice delegato in sede di verifica dello stato passivo (Sez. 1, Sentenza n. 9488 del 18/04/2013). Il medesimo principio è indubbiamente applicabile all’ipotesi di recesso esercitato ai sensi del secondo comma dell’art. 1385 c.c. prima della dichiarazione di fallimento.

Invero, le Sezioni unite hanno ritenuto inammissibile la domanda di risoluzione giudiziale introdotta dopo essersi avvalsi della tutela speciale ex art. 1385 c.c., comma 2, proprio «perché, dopo aver esercitato il diritto di recesso, il contratto è già risolto» (Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009).

La soluzione accolta dalla più recente giurisprudenza, invero, è conforme all’orientamento prevalente della dottrina, la quale ha evidenziato che la natura di mero accertamento dell’azione comporta che della legittimità del recesso intimato ai sensi dell’art. 1385, comma 2, c.c. ben possa conoscere, sia pure incidenter tantum, anche il giudice fallimentare richiesto dell’ammissione al passivo del credito, conseguente al recesso medesimo, di restituzione del doppio della caparra.

Invero, una domanda di risoluzione contrattuale correlata ad una richiesta risarcitoria contenuta nei limiti della caparra non è altro «che una domanda di accertamento dell’avvenuto recesso (e della conseguente risoluzione legale del contratto) » (Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009).

Il provvedimento impugnato, dunque, deve essere cassato con rinvio per nuovo esame e per il regolamento delle spese, al Tribunale di Monza in diversa composizione, il quale si atterrà ai principi innanzi richiamati.

P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il terzo motivo, accoglie il primo e il secondo motivo; cassa il provvedimento impugnato e rinvia per nuovo esame e per il regolamento delle spese al Tribunale di Monza in diversa composizione.

Così deciso in Roma il 9 aprile 2015
Depositata in cancelleria il 18 maggio 2015

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