Corte di Cassazione

1 Maggio 2019

Cass. Civ., Sez. II, 1 febbraio 2013, n. 2473

Suprema Corte di Cassazione Civile, sezione II, sentenza del 1/02/2013, n. 2473

Svolgimento del processo


1) Secondo il tribunale di Alessandria, tra l’acquirente M. D. e gli odierni resistenti O. – B. nel 1998 era intervenuta la promessa di compravendita di un immobile sito in (omissis), da portare a compimento con sentenza resa ai sensi dell’art. 2932 c.c.. Secondo la Corte di appello di Torino, che il 19 settembre 2005 ha riformato la sentenza di primo grado, l’accordo invocato dall’attore non costituiva atto di vendita e non aveva nemmeno i requisiti della c.d. puntuazione. Si trattava infatti di un’intesa di arbitraggio sottoscritta nell’aprile 1998 davanti al giudice di pace di Valenza, al quale il M. si era rivolto con domanda di conciliazione. In quella sede le parti avevano stabilito di chiedere a un consulente la stima del bene, genericamente dichiarando di impegnarsi a “rogitare l’immobile”, senza tuttavia assumere, ad avviso della Corte d’appello, gli obblighi contrattuali formali necessari per stipulare una vendita immobiliare. La Corte reputava quindi ineccepibile il rifiuto di vendere l’immobile verbalizzato alla successiva udienza davanti al giudice di pace, svoltasi nel dicembre 1998, a causa della mancata accettazione della stima. M. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 2 novembre 2006, resistito da controricorso degli intimati. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione


2) Il ricorso consta di due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati.
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362-1366-1367-1369-1370 e 1371 c.c., nonchè vizi di motivazione. Con il primo profilo, il ricorso rileva fondatamente che la sentenza impugnata ha male applicato le norme in tema di interpretazione dei contratto, perchè ha omesso di considerare la volontà delle parti (18375/06), pur avendo attribuito natura di scrittura privata riconosciuta all’accordo di cui al verbale redatto davanti al giudice di pace. La difesa del M. evidenzia che l’analisi della comune intenzione delle parti avrebbe dovuto muovere dal senso letterale delle parole “impegnarsi a rogitare”, che i contraenti avevano utilizzato, estendendosi all’uso degli altri canoni ermeneutici. Tra questi avrebbe dovuto essere valorizzato il comportamento complessivo delle parti stesse, tenendo conto della testimonianza resa dal giudice di pace, il quale aveva confermato che le parti avevano aderito,in udienza e su sua proposta, all’accordo sulla vendita dell’immobile degli O. al prezzo che sarebbe stato stabilito dal consulente. Valore confermativo della pienezza dell’obbligo contrattuale avrebbe dovuto essere dato, m un esame complessivo della vicenda: 1) al successivo comportamento assunto all’udienza del 14-2-1998, nel quale gli O. rifiutarono l’offerta, pur ammettendo i “precisi impegni assunti”; 2) alla ctu affidata al geom. Om., contenente le indicazioni utili in ordine all’oggetto del contratto.
2.1) Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per avere affermato che il contratto non si sarebbe perfezionato a causa della incompleta indicazione di tutti gli elementi del negozio. Invoca la giurisprudenza che ritiene sufficiente, per la validità del preliminare, l’accordo sugli elementi essenziali del contratto, che emergevano dalla consulenza acquisita. Con riferimento alla parte in cui la Corte torinese ha qualificato come mera “intesa di arbitraggio” il verbale sottoscritto dalle parti, il ricorso, che lamenta violazione degli artt. 1349-1350-1351- 1346-1183-1473 e 1374, sostiene la compatibilità di detta intesa con il contratto preliminare.
Vi si sottolinea che l’intesa di arbitraggio presuppone un contratto già concluso, così emergendo la contraddittorietà della tesi della Corte d’appello, che dopo aver parlato di detta intesa ha negato perfino dignità di puntuazione all’accordo raggiunto.

3) Le censure colgono nel segno nei limiti in cui si dirà. La Corte d’appello è partita dalla considerazione che non ci si trovi di fronte ad un verbale di conciliazione ex art. 322 c.p.c., perchè al momento dell’istanza di conciliazione non vi era contenzioso tra le parti, ma solo una difficile trattativa per l’acquisto dell’immobile. Ha ritenuto che i contendenti siano pervenuti alla sottoscrizione di una scrittura che potrebbe avere avuto “funzione puramente documentativa”. Ha tratto argomento a questo fine dalla tesi, errata, che per aversi un definitivo vincolo contrattuale, le parti debbano raggiungere intesa “su tutti gli elementi del negozio”. Ha affermato che il contenuto dell’accordo in questione non avrebbe valore negoziale, perchè non contiene una descrizione del bene, di accessori, destinazione, termini di adempimento, dello stato materiale e ipotecario dell’immobile. Ha negato la possibilità di una etero integrazione giudiziale della pregressa intesa.
3.1) Le tesi esposte in sentenza sono viziate in primo luogo, sotto il profilo della violazione di legge, dalla errata convinzione che non ci si trovi di fronte a contratto preliminare relativo a compravendita immobiliare, perchè tale contratto solenne deve recare ogni suo elemento all’interno della “scrittura firmata dalle parti”. E’ contraddetto in tal modo l’insegnamento di questa Corte, laddove afferma che: “Ai fini della validità del contratto preliminare non è indispensabile la completa e dettagliata indicazione di tutti gli elementi del futuro contratto, risultando per converso sufficiente l’accordo delle parti sugli elementi essenziali. In particolare, nel preliminare di compravendita immobiliare, per il quale è richiesto ex lege è atto scritto come per il definitivo, è sufficiente che dal documento risulti, anche attraverso il riferimento ad elementi esterni ma idonei a consentirne l’identificazione in modo inequivoco, avere le parti inteso fare riferimento ad un bene determinato o, comunque, determinabile, la cui indicazione pertanto, attraverso gli ordinari elementi identificativi richiesti per il definitivo, può anche essere incompleta o mancare del tutto, purchè, appunto, l’intervenuta convergenza delle volontà sia comunque, anche aliunde o per relationem, logicamente ricostruibile” (Cass. 8810/03; 7935/97).

Nella specie si apprende dal ricorso (pag. 2, recante fedele descrizione verificabile nella documentazione in atti) che il verbale sottoscritto si riferiva univocamente a una transazione immobiliare (transazione è vocabolo con cui nel linguaggio corrente si intende non solo l’istituto di cui all’art. 1965 c.c., ma anche più semplicemente un “affare” o un’”intesa” o un “accordo” o anche una vendita, se di questo si tratta) relativa ad un immobile sito in (omissis). Si apprende inoltre che le parti intendevano affidare la valutazione commerciale di esso ad un ctu nominato dal giudice di pace adito. 3.2) Ora, alla luco dell’insegnamento giurisprudenziale ricordato e di questo contenuto della scrittura, preciso nell’individuazione del bene e del criterio di individuazione del prezzo, non risulta corretta giuridicamente, nè congrua e logica, la motivazione della sentenza, allorquando nega non solo la dignità di contratto preliminare con riferimento ad un elemento (il prezzo) determinabile, ma persino che si trattasse di puntuazione contrattuale. In presenza di uno scritto avente astrattamente contenuto negoziale, proveniente consensualmente dalle parti e acquisito in sede conciliativa davanti al giudice di pace, al di là della natura di conciliazione giudiziale di cui all’art. 322 c.p.c., che non è stata sancita a causa del rifiuto di una delle parti dopo l’acquisizione della consulenza, l’art. 1362 c.c., evocato nel primo motivo, imponeva comunque di interrogarsi sul contenuto dell’accordo, al lume dei criteri ermeneutici fissati nel codice civile.
Il diniego della natura negoziale dell’intesa (così la definisce contraddittoriamente la sentenza, assimilandola ad intesa di arbitraggio) vien fatto risalire (v. pag. 10 sentenza) alla asserita irrilevanza dell’espressione “impegno a rogitare l’immobile al prezzo che verrà determinato dal ctu”, contenuta nel testo della scrittura.

La Corte d’appello ha ritenuto che tale affermazione non avrebbe il valore negoziale che parte ricorrente le attribuisce perchè mancherebbero la descrizione dell’immobile e di altre condizioni accessorie e perchè mancherebbe la documentazione circa un’intesa sugli elementi della vendita. Tale affermazione, riguardata al lume della giurisprudenza citata, è del tutto apodittica: il tenore letterale prefigura infatti un obbligo di “rogitare”, espressione che allude chiaramente alla formazione di atto pubblico a ministero di notaio, al fine di trasferire la proprietà di un bene; il bene viene indicato puntualmente e un soggetto terzo (consulente scelto dal giudice di pace) viene incaricato di stimarne il prezzo, da pagare in corrispettivo dell’acquisto, con la conseguente implicita individuazione de, corrispettivo stesso e di tutto quanto rileva a questi fini (estensione dell’immobile, pertinenze, condizione materiale, giuridica, etc.)

La norma di cui all’art. 1362 c.c. dispone che “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”. A fronte di un testo letterale apparentemente chiaro, la sentenza non poteva limitarsi, come ha fatto, a esprimere le ragioni di dissenso rispetto a quanto opinato dal primo giudice circa la sussistenza di una conciliazione rituale ex art. 322 c.p.c., ma doveva più approfonditamente interrogarsi sulla portata del testo sottoscritto, sul senso delle paroe e, ove le avesse ritenute non univoche, contrariamente a quanto appare a questa Corte, avrebbe dovuto ricercare la comune intenzione delle parti.

3.3) Non vale qui invocare, come fa il controricorso, quella giurisprudenza secondo cui “nei contratti per i quali è prevista la forma scritta “ad substantiam”, la ricerca della comune intenzione delle parti deve essere compiuta, con riferimento agli elementi essenziali del contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto” (v. Cass. 14444/06). Presupposto di questa regola è che il senso letterale delle parole presenti un margine di equivocità, ma ciò non si avvera nel caso in esame, giacchè l’equivocità viene ricollegata dalla Corte piemontese all’erroneo presupposto che per assumere valore negoziale una promessa di compravendita debba contenere tutti gli elementi da essa elencati nella seconda parte di pag. 10 e non la semplice individuazione (determinata o determinabile) del bene compravenduto e della controprestazione.

4) Da questi rilievi emerge la necessità di un completo riesame del materiale acquisito, poichè la Corte di appello ha omesso di considerare sia le risultanze testimoniali, riportate in ricorso, che avrebbero decisivamente contribuito a illuminare l’intenzione delle parti, sia la portata del verbale dell’udienza di rinvio, nella quale si diede atto del rifiuto ad addivenire alla vendita per il prezzo stimato dal consulente, nonostante “preciso impegno assunto”, frase meritevole di adeguata considerazione circa la portata della scrittura che la Corte di appello ha ritenuto insignificante con approssimativa e illogica valutazione. Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Torino che si atterrà al principio di diritto recato da Cass. 8810/03 e procederà a nuova interpretazione della scrittura de qua alla luce dei canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 e ss c.c., rinnovando la motivazione. Procederà inoltre alla liquidazione delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.


La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

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