Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 4 luglio 2017, n. 16414
Corte di Cassazione, II Sezione civile, ordinanza 4 luglio 2017, n. 16414
FATTI DI CAUSA
1- Signor X e Signora X convenivano dinanzi al Tribunale di Roma Signor Y e proponevano domanda di usucapione, per possesso uti domini ultraventennale, iniziato nel 1965, di parte del terreno sito nel Comune di Roma, al foglio 1041 del catasto e alla particella n. 54 sub 2, ove avevano edificato a loro cura e spese un’abitazione di tre camere e servizi, terreno del quale Signora X era proprietaria al 25%. Il Tribunale di Roma, con sentenza non definitiva in data 30 marzo 2005, dichiarava l’acquisto, da parte degli attori Signora X e Signor X, della proprietà per intervenuta usucapione del 75°h del terreno, ordinando al Conservatore di procedere alla trascrizione, e rimetteva sul ruolo per il prosieguo con riguardo alle ulteriori domande. 2. – In accoglimento del gravame proposto da Signor Y, la Corte
d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 29 marzo 2013, in riforma dell’impugnata pronuncia, ha rigettato la domanda di usucapione. 2.1. – La Corte d’appello ha rilevato che si è di fronte ad un’ipotesi di prospettato acquisto per usucapione da parte del comproprietario delle quote degli altri comproprietari (la madre di Signora X, Signora Z, già comproprietaria al 50%, poi deceduta nel 1996, e il fratello, Giuseppe, titolare del 25%). Richiamando il principio secondo cui il comproprietario può usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis in termini di esclusività, ma che a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall’uso della cosa, occorrendo, per converso, che il comproprietario usucapiente ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in modo tale, cioè, da evidenziarne una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, la Corte territoriale ha rilevato che la scrittura privata del 1987 (a firma di Signora X, Signor Y e Signora Z, in cui si dà atto che è stata versata la somma di lire 1.931.000 per accatastare l’immobile, così suddivisa: lire 1.287.353 da parte di Signora Z, lire 321.833 da parte di Signora X e lire 321.833 da parte di Signor Y) “ben dimostra, peraltro in epoca successiva all’assunto acquisto, che gli altri comproprietari non avevano per nulla inteso dismettere il proprio diritto e che, diversamente, gli appellati non solo non godevano in modo esclusivo del bene con estromissione degli altri comproprietari, ma riconoscevano, quantomeno la Signora X, in epoca come detto successiva al dedotto acquisto, in capo a questi ultimi tale loro qualità proprio poi nella misura detta”. 3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, notificata il 22-23 marzo 2013, Signora X e Signor X hanno proposto ricorso, con atto notificato il 19 luglio 2013, sulla base di due motivi. Signor Y ha resistito con controricorso. Il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 380-bis.1. cod. proc. civ., chiedendo il rigetto del ricorso. I ricorrenti hanno depositato una memoria illustrativa in prossimità della camera di consiglio.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo (mancato esame di elementi di prova decisivi ai fini della decisione, errore di diritto nell’esame di documenti e falsa applicazione dell’art. 215 cod. proc. civ. e contraddittoria e omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.) ci si duole che la Corte d’appello abbia errato nell’omettere di prende re in considerazione le numerose testimonianze e la dichiarazione confessoria resa dall’appellante Signor Y all’udienza del 10 giugno 2001, ritenendo poi la ricevuta di pagamento della somma di lire 1.913.000, necessaria per l’accatastamento della proprietà dei comparenti e della de cuius, dagli stessi sottoscritta, come scrittura privata riconosciuta, dalla quale far derivare conseguenze in contrasto con le deposizioni testimoniali e confessorie, non esaminate. Dette risultanze istruttorie – si osserva – erano state considerate dal Tribunale di Roma, e sono state poste nel nulla dalla Corte d’appello con la semplice frase “e ciò a prescindere dalle risultanze della prova orale”, così vanificandosi l’accurato lavoro di indagine posto in essere dal Tribunale. Con il secondo mezzo si deduce falsa applicazione di norma di diritto (art. 215 cod. proc. civ.) sulla ricevuta senza data. Ad avviso dei ricorrenti, la statuizione della Corte d’appello incorrerebbe in violazione dell’art. 215 cod. proc. civ., in quanto gli appellati hanno riconosciuto la scrittura per quella che è (suddivisione di una somma), mentre “le altre deduzioni sono una violazione dell’articolo e contrastano con le deposizioni rese dai testi e dall’appellante, sull’utilizzo in modo esclusivo del bene, mai utilizzato dalla controparte”, tanto più che “il catasto non è indice di proprietà ma solo dello stato dei beni”. 2. – I due motivi – da esaminare congiuntamente, stante la stretta connessione – sono infondati. La Corte territoriale si è attenuta al principio di diritto, costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell’interessato attraverso un’attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass., Sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478; Cass., Sez. II, 20 maggio 2008, n. 12775; Cass., Sez. II, 2 settembre 2016, n. 17512). Facendo applicazione del suindicato principio, la Corte d’appello ha affermato, all’esito della valutazione delle risultanze processuali, che non solo non è stata offerta la prova, in capo agli attori, del dominio esclusivo sull’intera res comune attraverso un’attività incompatibile con il possesso altrui, ma anche che dalla scrittura privata del 1987 risulta che gli altri comproprietari, suddividendosi la spesa necessaria per accatastare l’immobile, non avevano per nulla inteso dismettere il loro diritto, come riconosciuto dalla stessa Signora X. Entrambi i motivi sottopongono alla Corte, nella sostanza, profili relativi al merito della valutazione delle prove, che sono insindacabili in sede di legittimità, quando – come nel caso di specie – risulta che i giudici di merito hanno esposto in modo ordinato e coerente le ragioni che giustificano la loro decisione, sicché deve escludersi tanto la “mancanza assoluta della motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico”, quanto la “motivazione apparente”, o il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, figure queste – manifestazione di violazione di legge costituzionalmente rilevante sotto il profilo della esistenza della motivazione – che circoscrivono l’ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità dopo la riforma dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. operata dall’art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis. D’altra parte, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053). Come esattamente rilevato dal pubblico ministero nelle sue conclusioni scritte, la sentenza ha dimostrato di avere considerato le prove assunte, affermando di ritenere irrilevante quella orale, con affermazione sintetica, ma sufficiente ad escludere il vizio di omissione, non riferibile agli elementi istruttori. A ciò aggiungasi che i ricorrenti omettono di riprodurre il tenore delle deposizioni testimoniali invocate e riportano soltanto parzialmente il contenuto dell’interrogatorio formale di Signor Y. Occorre poi osservare, in ogni caso, che la separazione delle due abitazioni (ossia il fatto che – come si deduce nel ricorso – “l’immobile costruito dai ricorrenti sul terreno in questione a loro cura e spese è distinto e separato dall’immobile di Signora Z, senza comunicazione alcuna”) non costituisce, di per sé, un fatto decisivo, alla luce della scrittura privata del 1987, con “le firme apposte in calce all’indicazione della somma da ciascuno pagata per l’accatastamento, pari alla quota, per l’appellata Angelina, del solo 25%, come assunto e per nulla contestato” (pag. 6 della sentenza impugnata). Di questa scrittura privata i ricorrenti, al di là della formale prospettazione della violazione dell’art. 215 cod. proc. civ., si limitano a denunciare assertivamente, con il secondo motivo, l’interpretazione fornita dal giudice a quo, finendo inammissibilmente con l’eccepire l’inadeguatezza della motivazione sul punto (“gli appellati hanno riconosciuto la scrittura per quella che è: suddivisione di una somma”; “le altre deduzioni sono una violazione dell’articolo e contrastano con le deposizioni rese dai testi e dall’appellante, sull’utilizzo in modo esclusivo del bene, mai utilizzato dalla controparte”) 3. – Il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. 4. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1- quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi euro 2.700, di cui euro 2.500 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 31 maggio 2017.