Cass. Civ, Sez. II, sentenza 27 gennaio 2017 n. 2054
Corte di Cassazione, II Sezione civile, sentenza 27 gennaio 2017, n. 2054
Svolgimento del processo
1. Con distinti ricorsi le società resistenti, indicate in epigrafe, impugnavano ciascuna, innanzi alla Commissione Tributaria di 1° grado di Bolzano, gli avvisi di liquidazione (gli atti sono indicati nell’epigrafe della sentenza oggi impugnata) emessi dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Bolzano – aventi ad oggetto liquidazione dell’imposta di registro di atti, definiti dalle contribuenti conferimento in natura, ma ritenuti dall’Ufficio cessioni di rami d’azienda e perciò sottoposti ad imposta di registro che veniva liquidata, oltre le sanzioni.
1.1 La vicenda, come leggesi nella sentenza impugnata, che ha dato luogo all’adozione dei suddetti atti di avviso di accertamento è la seguente: con atto registrato il 20 ottobre 2005 al n. 4860/01 veniva costituita la F.A. S.r.l., nella quale la F. S.p.a conferiva in natura il ramo d’azienda “Progetto P.E.A.”, del valore di € 75.850,51. Con altro atto, registrato in pari data, veniva costituita la F.G. S.r.l., nella quale la F. S.p.a. conferiva in natura il ramo d’azienda “Progetto P.E.G.” per un valore di € 189.582,28.
In seguito, con atti registrati il 28 novembre 2005, rispettivamente al n. 3589/2 e al n. 3588/2, la F. S.p.a. cedeva alla F.A. Holding s.r.l. la propria quota sociale della F.A. s.r.l., ed ancora sempre la F. S.p.a. cedeva la propria quota sociale della F.G. s.r.l. alla F.B. s.r.l..
Alle predette società, conferenti, conferitarie e cessionarie delle quote sociali, venivano notificati in data 26 novembre 2008 altrettanti avvisi di liquidazione, con i quali l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Bolzano -, sulla premessa, come già enunciato, che gli atti negoziali in parola erano stati posti in essere al solo scopo di trasferire rami d’azienda, recuperava la maggiore imposta di registro.
In particolare, l’Agenzia delle Entrate, avendo riqualificato gli atti negoziali posti in essere come unitarie cessioni di ramo d’azienda dalla F. S.p.a. alla F.B. s.r.l., e dalla F. S.p.a alla F.A. Holding s.r.l., liquidava, quanto alla prima fattispecie, una maggiore imposta di registro pari ad € 274.089,00, oltre interessi per complessivi € 292.932,62 e, quanto alla seconda fattispecie, una maggiore imposta di registro pari ad € 90.000,00 oltre interessi per € 6.187,50.
La F. S.p.a., la F.A. S.r.l. e la F.B. S.r.l., nell’impugnare i rispettivi avvisi di liquidazione, eccepivano, in via preliminare, l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento, essendo già decorso, alla data di notifica degli avvisi, e, con riferimento alla data di registrazione dei due atti di conferimento (20 ottobre 2005), il termine triennale di cui all’art. 76 comma 2° d.P.R. 131/86.
Contestavano, inoltre, l’utilizzabilità per i fini di cui all’art. 20 della legge di registro di dati extratestuali e la stessa possibilità di valorizzare un eventuale collegamento funzionale tra più atti negoziali, per assoggettare a tassazione gli effetti giuridici finali in concreto conseguiti. Non mancavano, inoltre, di rilevare come, in ogni caso, non si potesse qualificare il conferimento, seguito dal trasferimento di quote sociali, come cessione del bene conferito.
L’Ufficio contrastava i ricorsi assumendo, al contrario, essere pienamente legittimo ricondurre ad unità un frazionamento negoziale di una pluralità di atti, per tassarne l’effetto finale. In conseguenza di ciò, il termine di decadenza non poteva decorrere dalla data dei conferimenti, bensì da quella della cessione delle quote (28 novembre 2005) rispetto alla quale il recupero della maggiore imposta, da considerarsi “complementare residuale” era stato tempestivo.
2. Con sentenza n. 181/02/2009, depositata il 24 luglio/27 agosto 2009, la Commissione tributaria di primo grado, in accoglimento dei ricorsi riuniti, annullava gli avvisi di liquidazione per intervenuta decadenza.
Con la sentenza, oggi impugnata, la Commissione di II grado, su appello dell’Agenzia delle Entrate, resistenti le costituite società contribuenti, confermava la sentenza di primo grado.
3. Propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrata affidandolo ad un unico motivo.
Si sono costituite le società con memoria.
3.1 Con l’unico motivo l’Agenzia delle Entrate ricorrente denuncia, ex art. 360, 1° comma n. 3) cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 76, 2° comma del d.P.R. 131/86 in combinato disposto con gli artt. 20 e 21, 2° comma d.P.R. 131/1986.
In premessa, si ribadisce la propria tesi, già sostenuta nei giudizi di merito: se la complessiva operazione posta in essere dalle parti si è perfezionata mediante il compimento di una pluralità di negozi, è giocoforza ritenere che solamente dalla registrazione dell’ultimo di essi decorra il termine decadenziale per operare la diversa liquidazione dell’imposta di registro, poiché solo da quel momento l’Agenzia ha avuto a disposizione tutti gli elementi per poter identificare gli effetti giuridici realizzati dalle parti.
La tesi accolta dalla Commissione, si espone, non è condivisibile e si pone in contrasto con la più recente elaborazione giurisprudenziale in materia in riferimento alla interpretazione dell’art. 20 del d.P.R. 131/86, in base alla quale, se è vero che l’imposta di registro debba essere applicata in base alla “intrinseca natura” ed “agli effetti giuridici degli atti”, è altrettanto vero che è necessario tener conto dell’eventuale collegamento funzionale instaurato dalle parti tra più negozi giuridici (collegamento volontario). In sostanza, si sostiene, che, considerando singolarmente ciascuno dei negozi giuridici posti in essere dalle parti, non sarebbe possibile identificare “gli effetti giuridici” che le parti, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, hanno inteso realizzare, attraverso l’adozione dei singoli schemi contrattuali.
La tesi prospettata è confortata, per la ricorrente, anche dall’ulteriore natura della disposizione normativa di cui all’art. 20 richiamato che ha una funzione antieleusiva che si raggiunge attraverso la riqualificazione per via interpretativa dei negozi giuridici, così da far emergere la modificazione della realtà giuridica realmente prodotta nell’esercizio dell’autonomia privata, a prescindere dalle forme utilizzate. Di conseguenza, nel perseguimento di tale obiettivo, all’Amministrazione deve essere riconosciuta la possibilità di considerare unitariamente i singoli atti negoziali posti in essere, poiché una delle strategie che le parti potrebbero adottare allo scopo di eludere l’applicazione della normativa fiscale, potrebbe essere proprio quella di parcellizzare in una pluralità di negozi giuridici un’unitaria operazione negoziale, così da mascherare gli obiettivi realmente perseguiti, e nel caso, garantirsi un vantaggio fiscale.
Si richiama a tal fine la pronuncia di questa Corte n. 14900/2002.
Quanto alla seconda considerazione sub b), posta a base della motivazione dell’impugnata sentenza, secondo cui, nel caso di specie, all’identità dell’oggetto, costituito dal ramo d’azienda, non corrispondeva, però, l’identità soggettiva e ciò era preclusivo della possibilità di procedere ad un’interpretazione unitaria degli effetti giuridici prodotti dai diversi atti negoziali, si obietta che è ben possibile che un’operazione negoziale possa svolgersi secondo uno schema trilaterale. Ciò avviene quando le parti si accordano affinché gli effetti di un negozio siano deviati dalle parti che lo pongono in essere nella sfera giuridica di un terzo e questi, con autonoma dichiarazione, faccia propri gli effetti prodotti dall’atto.
Non pare logico sostenere che la direzione degli effetti giuridici, che si realizzano nella sfera giuridica di un terzo, possa valere ad impedire la corretta interpretazione degli atti collegati posti in essere dalle parti, e, con essa, la diversa qualificazione che ne possa dare l’Amministrazione fiscale.
Si sostiene che, nel caso sottoposto all’esame del Collegio, le società costituite, all’interno del patrimonio delle quali sono transitati i rami d’azienda mediante il conferimento degli stessi, hanno costituito un soggetto interposto, eliminato il quale, si sono prodotti gli effetti giuridici effettivamente voluti dalle parti, ed identificati proprio nell’effetto giuridico finale costituito dall’acquisizione dei rami d’azienda nel patrimonio delle società che, da ultimo, ne sono venute in proprietà.
Pertanto, gli atti collegati di cui si deve tener conto da cui far decorre il termine decadenziale è quello della cessione dell’intera quota di partecipazione compiuta dalla F. S.p.a alle società F.A. Holding s.r.l. e F.B. s.r.l. che sono stati registrati il 28.11.1005, l’avviso di liquidazione è stato notificato il 26.11.2005 quando non era ancora decorso il termine decadenziale di tre anni.
3.2 Con atto di controricorso, depositato nei termini, si sono costituite le società F.A. HOLDING S.r.l., F. S.p.a., F.B. S.r.l. che contrastano l’assunto di parte avversa.
In via preliminare si rappresenta, così come evidenziato dall’impugnata sentenza, che l’art. 76, comma 2 del d.P.R. 131/86 non ammette la possibilità che il termine decadenziale dell’esercizio dell’azione impositiva sia fatto decorrere da un momento diverso da quello di registrazione dell’atto, come conformemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità che in materia ha elaborato il principio del cosiddetto “consolidamento del criterio impositivo”, si richiamano le sentenze nn. 7242/03, 7835/02, 3485/96 ecc. .
Né esprime principio contrario la sentenza Sez. V n. 15192/2010 richiamata dalla ricorrente Agenzia che riguarda una fattispecie del tutto diversa in riferimento ad un atto negoziale la cui efficacia era sottoposta a condizione sospensiva.
Relativamente al dedotto potere dell’Amministrazione finanziaria di valorizzare, nell’interpretazione degli atti presentati alla registrazione, il collegamento negoziale ed assoggettare a tassazione “l’effetto giuridico finale” delle operazioni compiute ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. 131/86, le società controricorrenti, nel far proprio l’iter argomentativo della sentenza impugnata, evidenziano che non è possibile, per quanto argomentato in ordine alla interpretazione del richiamato art. 20, imputare l’effetto giuridico unitario di una cessione d’azienda. Si chiarisce che, secondo la unanime giurisprudenza e la dottrina, che il riferimento agli effetti giuridici comporta che l’imposta debba essere applicata in relazione allo schema giuridico che l’atto è idoneo a realizzare, alla sintesi delle conseguenze giuridiche che è idoneo a produrre, indipendentemente dalla denominazione indicata dalle parti, nonché della veste formale che lo racchiude, e non anche gli “effetti economici” come ritenuta da altra parte della dottrina, tesi superata. Pertanto, si conclude, nel determinare il contenuto dell’atto al fine di applicare l’imposta di registro, se da un lato non si deve accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti, dall’altro non si deve travalicare lo schema negoziale nel quale esso risulta inquadrabile, pena la costruzione di una fattispecie imponibile non basata sugli effetti giuridici come richiede l’art. 20. Si continua, con l’evidenziare che l’indagine sugli effetti giuridici deve essere compiuta unicamente sulla base degli elementi che emergono dai documenti presentati alla registrazione, come affermato dalla Commissione di secondo grado; questa regola discende dalla natura stessa dell’imposta di registro che, in quanto “imposta d’atto”, nel senso di imposta prelevata in ragione di un certo atto, non può che modellarsi sulla situazione giuridica che l’atto medesimo conforma. Il contenuto giuridico dell’atto deve essere stabilito in base al documento che lo incorpora, all’uopo presentato, e alle clausole che lo compongono senza ricorre ad integrazione di questo, ad elementi estrinseci. E’ evidente che, se non è ammesso il ricorso ad elementi non rilevabili dal documento, neppure è ammesso, al fine di individuare il fatto imponibile, il riferimento a vicende antecedenti o successive la registrazione dell’atto (Cass. Sezione V 4220/2006). Dunque, in obiezione alla tesi sostenuta dalla ricorrente, si afferma che il collegamento tra atti non costituisce, almeno tipicamente, un fattore desumibile dal loro contenuto. La sua presenza si ricava, piuttosto, da un’indagine sul “comportamento complessivo” delle parti, la cui rilevanza ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro è però, da escludere, in quanto implicante un percorso extratestuale. A conferma della obiezione si richiamano le disposizioni della legge sul Registro di cui all’art. 21, comma 2 (laddove ammette la tassazione unitaria di più disposizioni tra loro funzionalmente collegate, ma solo se esclusivamente contenute nel medesimo atto), all’art. 22 (che consente di assoggettare a tassazione un atto precedentemente posto in essere tra le stesse parti non registrato, ma in quanto enunciato nell’atto successivo presentato alla registrazione), e all’art. 24, co.2 (che regola il successivo trasferimento delle pertinenze estendendo ad esse il regime del precedente trasferimento dell’immobile).
Con riferimento alla propugnata funzione antielusiva del citato articolo 20, le controricorrenti, pur prendendo atto di un orientamento in tal senso della giurisprudenza di legittimità (Sez. V 24452/2007; n. 2713/2002), rispondendo la norma all’esigenza di colpire situazioni caratterizzate dalla “sostituzione ad un unico strumento giuridico con determinazioni patrizie multiple, di più contenitori negoziali” (Sez. V. n. 14900/2001, richiamata dall’Agenzia), ne contesta la validità giuridica attraverso l’interpretazione di norme tra esse collegate (art. 53 bis d.P.R. 131/1986 “intitolato “attribuzione e poteri degli uffici”, art. 37 bis d.P.R. 600/73) ed in particolare dell’art. 37 bis del d.p.R 600/73 ( che attribuisce all’Amministrazione il potere di disconoscere gli effetti fiscali de “gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare gli obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzione di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”) che va applicato anche all’imposta di registro circa i poteri di accertamento degli uffici; se, infatti l’Amministrazione intende disconoscere gli effetti di determinati atti, in quanto dalla stessa valutati di natura elusiva, deve agire ai sensi e nelle forme dell’art. 37 bis indicato. Tale applicazione smentisce, per le controricorrenti, la funzione antieleusiva dell’art. 20, se, infatti, tale norma fosse interpretabile come una causa antielusione, nessun bisogno ci sarebbe stato di operare l’estensione dell’art. 37.
Altra obiezione che viene mossa alla natura antieleusiva dell’art. 20, è che le considerazioni svolte sul piano del coordinamento dell’art. 20 d.P.R. 131/86 con l’art. 37 bis d.P.R. 600/73 rafforzano la tesi secondo cui la ricerca dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici di un atto non può estendersi, ai sensi dell’art. 20, al di là degli elementi emergenti dal contenuto e dalle clausole del documento presentato a registrazione, non assumendo alcuna rilevanza allo scopo eventuali fattori esterni. In particolare, nell’interpretazione di un atto sottoposto a registrazione, non è ammesso ricorrere, al fine di individuare il fatto imponibile, a vicende precedenti o successive la presentazione dello stesso, quale la stipulazione di ulteriori e collegati negozi: il collegamento tra negozi non costituisce, infatti, un elemento desumibile dal contenuto dei singoli atti che compongono l’operazione.
In definitiva, le controricorrenti società, a prescindere dalla possibilità di valutare il collegamento funzionale tra i diversi atti con riferimento all’effetto giuridico finale (oggetto della vera volontà negoziale delle parti sin dall’inizio dell’operazione), si condivide la decisione impugnata, laddove ha affermato che, nel caso in esame, gli atti considerati, anche unitariamente apprezzati, non hanno prodotto e non sono idonei a produrre un effetto giuridico finale corrispondente a quello della cessione del ramo d’azienda: nella cessione a titolo oneroso, l’azienda viene scambiata per un corrispettivo, un soggetto trasferisce l’azienda e riceve un corrispettivo; un altro soggetto trasferisce un corrispettivo e riceve l’azienda. Questi effetti giuridici non sono gli stessi effetti giuridici che sono stati prodotti dagli atti in controversia.
Nella specie, con il primo atto, il conferimento del ramo d’azienda è stato scambiato verso una partecipazione nella società conferitaria, con il secondo atto, la cessione della partecipazione è stata scambiata per un corrispettivo.
E’ evidente per le controricorrenti l’impossibilità di ridurre i due atti allo schema dello scambio dell’azienda verso un corrispettivo: chi ha acquistato l’aziende non l’ha acquisita verso un corrispettivo, ma verso l’emissione di una partecipazione, chi ha versato il corrispettivo non lo ha versato a fronte dell’acquisto dell’azienda, ma dell’acquisto di una partecipazione.
I due fenomeni, cessione del ramo d’azienda e cessione delle quote di partecipazione, hanno regimi tributari profondamente diversi: le cessioni di partecipazione non sono soggette ad imposta di registro, quelle di azienda sì; ai fini delle imposte sul reddito, le cessioni di partecipazioni godono, a certe condizioni, del regime “participation exception”, le cessioni di azienda no.
Si ribadisce, in una con la sentenza impugnata, che l’identità del risultato giuridico finale è assente: gli atti considerati – i conferimenti di rami di azienda e le successive vendite di partecipazioni – non concorrono “alla formazione progressiva di un’unica fattispecie identificabile attraverso un determinato effetto giuridico” corrispondente a quello della cessione del ramo d’azienda.
3.3 Con memoria depositata in termini le controricorrenti società ribadiscono ulteriormente le proprie difese.
All’odierna udienza, dopo la relazione del consigliere designato, il P.G. ha concluso per l’accoglimento del ricorso, i rispettivi difensori delle parti si sono riportati ai propri atti.
Motivi della decisione
4. Il ricorso va rigettato.
In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva (Cass. S.U. 2008/30005; Cass. 2011/11236; 2011/21782).
Tuttavia il divieto di comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta. La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. 2010/20029).In particolare il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali (Cass. 2011/1372).
4.1. Nella sentenza impugnata, la Commissione tributaria regionale, nel condividere la tesi esposta dal primo giudice, ha, preliminarmente, affermato che gli avvisi di liquidazione vengono fondati dall’Ufficio finanziario sull’art. 20 della legge di registro, ossia movendo da una nuova interpretazione degli atti già sottoposti a registrazione attraverso la valorizzazione del collegamento funzionale risultante da una valutazione unitaria dei singoli atti negoziali posti in essere dalle parti contraenti. E’ estranea, dunque, all’oggetto della controversia la prospettata condotta elusiva, che l’Agenzia delle Entrate ha pur tuttavia fatto valere in sede contenziosa, ravvisando anche nell’art. 20 una norma antielusiva nell’ambito specifico dell’imposta di registro. Ha poi, nel merito, ritenuto che il termine decadenziale decorra dalla registrazione del primo atto, con la conseguenza di ritenere oramai decorso lo stesso quando l’Agenzia delle entrate aveva notificato l’avviso di liquidazione impugnato. A sostegno della propria tesi la Commissione, nel l’afferma re la violazione della disposizione di cui all’art. 20 d.P.R. 131/1986, si sofferma su due considerazioni: a)l’imposta di registro è un’imposta d’atto, con la conseguenza che per l’individuazione del reale contenuto dell’atto tassato è precluso il riferimento a dati extratestuali ed esterni all’atto stesso; b) per quanto sia vero che un atto, collegato strutturalmente, per identità di soggetto ed oggetto, ad altri negozi giuridici, concorre con questi alla formazione di un’unica fattispecie, nel caso di specie, però, ” difetta quantomeno la identità soggettiva dei vari negozi, atteso che gli atti di conferimento vedono per contraenti soggetti parzialmente diversi da quelli degli oggetti di cessione delle quote”.
4.2 Ciò premesso, essendo stato circoscritto il vaglio di legittimità di questa Corte, si osserva che, ritornando alle considerazioni in diritto svolte in premessa, a riqualificazione della “cessione di quote”, negozio posto in essere dalle parti, in “cessione di ramo di azienda” troverebbe il suo fondamento, per l’Amministrazione finanziaria ricorrente, nell’art. 20 del T.U.R. (rubricato “interpretazione degli atti”) ai sensi del quale, l’imposta,prescindendo dal titolo o dalla forma apparente, deve essere applicata tenendo conto dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti. Si fa riferimento a quell’indirizzo interpretativo per il quale l’amministrazione sarebbe legittimata a disconoscere gli effetti tributari e civili tipici degli atti o negozi posti in essere dalle parti, ogni qual volta tali effetti non appaiono conformi alla “causa reale” dell’operazione economica complessivamente realizzata e, dunque, prescindendo dal nomen iuris attribuito all’atto. Impostazione che si fonderebbe sulla valorizzazione dell’art. 20 T.U.R. come norma generale antielusiva per l’imposizione di registro.
Questa ricostruzione è respinta dalla dottrina sulla scorta dell’osservazione che nell’imposta di registro esistono diverse disposizioni in virtù delle quali l’atto è tassato senza tener conto della sua qualificazione ed efficacia giuridica cosicché solo per queste ipotesi sussiste il diritto di disconoscere il comportamento delle parti diretto a conseguire, oltre che gli effetti tipici dell’atto, anche effetti diversi e indiretti.
Il Collegio non ignora il costante indirizzo di questa Corte secondo cui, in tema di interpretazione degli atti ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, il criterio fissato dall’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 impone di privilegiare l’intrinseca natura e gli effetti giuridici, rispetto al titolo e alla forma apparente degli stessi, con la conseguenza che i concetti privatistici relativi all’autonomia negoziale regrediscono, di fronte alle esigenze antielusive poste dalla norma, a semplici elementi della fattispecie tributaria, per ricostruire la quale dovrà, dunque, darsi preminenza alla causa dei negozi giuridici (cfr. sentt. 23584/12, 6835/13, 17965/13, 3481/14).
Non è tuttavia necessario ripercorrere le strade del dibattito sulla portata quale norma antielusiva generale dell’art. 20 T.U.R. per risolvere il caso di specie.
Nessuna elusione sembra infatti caratterizzare quest’ultimo che appare piuttosto come un’ipotesi di legittima scelta di un tipo negoziale invece di un altro.
Pertanto, se è indubitabile che l’Amministrazione in forza di tale disposizione non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici. In altre parole non deve ricercare un presunto effetto economico dell’atto tanto più se e quando – come nel caso di specie – lo stesso è il medesimo per due negozi tipici diversi per gli effetti giuridici che si vogliono realizzare.
Infatti, ancorché da un punto di vista economico si possa ipotizzare che la situazione di chi ceda l’azienda sia la medesima di chi cede l’intera partecipazione, posto che in entrambi i casi si “monetizza” il complesso di beni aziendali, si deve riconoscere che dal punto di vista giuridico le situazioni sono assolutamente diverse.
4.3. Così posta la questione, la censura primaria della ricorrente Agenzia delle entrate implica una questione di merito, nel senso che la verifica della dimostrazione da parte dell’Amministrazione finanziaria di aver fornito la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, è rimessa esclusivamente al giudice del merito. E, preso atto che, nel caso di specie, la CTR di Bolzano ha, con motivazione non censurabile sia sul piano logico che giuridico, dato ampia contezza di come non si ravvisi il collegamento negoziale preordinato ad eludere la tassazione dell’imposta di registro, è precluso al Collegio ogni valutazione in merito.
5. Al rigetto del ricorso segue la condanna dell’Amministrazione finanziaria ricorrente al pagamento delle spese di giudizio di Cassazione in favore delle controparti che si liquidano complessivamente come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi € 8.200,00, di cui € 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.