Cass. Civ. Sez. V Sentenza 1 ottobre 2015 n. 19611
Corte di Cassazione, V Sezione civile, sentenza 1ottobre 2015, n. 19611
Svolgimento del processo
1. Il 18.9.2002 l’ufficio di Napoli 1 dell’Agenzia delle Entrate faceva notificare a C.M., nella sua qualità di liquidatore e di socio della C. s.r.L, società cancellata dal registro delle imprese il 3.7.2000, un avviso di accertamento con cui all’esito dei controlli eseguiti sulla dichiarazione IVA della società per l’anno 1997, ne rettificava il relativo volume d’affari recuperando a tassazione talune detrazioni indebitamente operate.
Detto atto impositivo veniva opposto dal notificato con ricorso in data 6.11.2002 avanti alla CTP di Napoli che lo accoglieva ritenendo che l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione andasse notificato singolarmente a tutti i soci. Appellata dall’ufficio, la decisione di prime cure era confermata dalla CTR con la sentenza qui impugnata sulla base della considerazione che, non essendo controverso che alla data del 3.7.2000 la società avesse cessato di esistere, “a mente dell’art. 2456 c.c. i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci”.
Per la cassazione di tale ultima sentenza l’ufficio propone ora ricorso su quattro motivi.
Non ha svolto attività difensiva la parte.
Motivi della decisione
2. Con il primo motivo di ricorso, svolto ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. l’Agenzia ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di legge in relazione all‘art. 2495 c.c., nel testo vigente alla data del 18.9.2002, nonché dell’art. 2220 c.c., poiché contrariamente a quanto affermato dal giudice territoriale, ed in considerazione degli indirizzi interpretativi in allora vigenti in punto di cancellazione della società dal registro delle imprese, “si devono ritenere pienamente legittime sia la rettifica della dichiarazione eseguita nei confronti della società C., sia la notifica dell’atto impositivo impugnato al suo ultimo liquidatore, trattandosi di atti compiuti prima dell’entrata in vigore della novella legislativa” in materia societaria. Violazione e falsa applicazione di legge, sempre ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., in relazione all’art. 218 Disp att. c.c., nonché in relazione agli artt. 2456 e 2495 vigenti all’epoca, la ricorrente deduce con il secondo motivo di ricorso, atteso che in considerazione di quanto disposto dalla prima delle norme richiamate, “le modifiche degli artt. 2456 e 2495 … non hanno inciso sulla titolarità del rapporto giuridico di imposta, dovendosi tuttora ritenere in vita la soc. C. fino alla definizione dei rapporti creditori esistenti”, di modo che solo ragionando in questi termini “si può configurare la legittimazione ad agire del sig. C. nella qualità di legale rappresentate di una società considerata ancora in vita e non in proprio”.
Il terzo motivo di ricorso, svolto in via subordinata ancora ai sensi ai sensi dell’art 360, comma primo, n. 3, c.p.c., imputa al pronunciamento del giudice campano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., poiché, se non si fosse condiviso l’assunto fatto valere con il secondo motivo, “l’avversa opposizione avrebbe dovuto essere dichiarata del tutto inammissibile” ovvero “improcedibile a far corso dal momento della pretesa estinzione della società”, dovendo infatti escludersi che la persona fisica dell’ex liquidatore potesse agire giudizialmente per far valere i pretesi vizi dell’atto rivolto ad altro soggetto, per di più non più esistente.
Con il quarto motivo di ricorso l’Agenzia impugnante si duole in via ulteriormente gradata a mente dell’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. del vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione vero che se si fosse ritenuto, in dissenso rispetto al primo motivo di ricorso, che anche nel periodo antecedente al 1.1.2004 la rettifica dovesse essere eseguita nei confronti dei soci, “la sentenza si rivela contraddittoria ed illogica perché, pure riconoscendo che il ricorrente C. aveva non solo la qualità di ultimo liquidatore, ma anche quella di ex socio, ha ritenuto illegittimi ed improduttivi di effetti gli atti impostivi a lui notificati”.
3.1. Sul pacifico presupposto di fatto che nella specie il debito trasfuso nell’avviso di accertamento oggetto di impugnativa è un debito contratto dalla società nell’anno di imposta 1997 e che la società è stata cancellata dal registro delle imprese in data 3.7.2000, nonché sulla considerazione in diritto che per l’art. 2495 c.c. nel testo novellato dall’art. 1 D.lg. 6/03 con la cancellazione dal registro delle imprese la società si estingue, è preliminare esaminare se ne sussista tuttora la legittimazione – e per essa dei soggetti che hanno assunto la veste di parti intimate nell’odierno giudizio – a resistere alla pretesa esercitata dal fisco mediante la notificazione nei loro confronti del detto atto impositivo.
3.2. Orbene – come è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (4060/10; 4061/10; 4062/10) – la cancellazione della società dal registro delle imprese ne determina ipso facto l’estinzione, avendo assunto la formalità della cancellazione a seguito della vicenda riformatrice la medesima efficacia costitutiva che per le società di capitali riveste la formalità dell’iscrizione, e ciò, con un significativo mutamento di rotta rispetto all’orientamento giurisprudenziale prevalente sino ad allora, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo. Poiché peraltro al novellato art. 2495 c.c. che afferma il detto principio non è attribuibile natura interpretativa della disciplina previgente, in mancanza di un’espressa previsione di legge, le SS.UU. reputano che, non avendo esso efficacia retroattiva e dovendo tutelarsi l’affidamento dei cittadini in ordine agli effetti della cancellazione in rapporto all’epoca in cui essa ha avuto luogo, per le società cancellate in epoca anteriore al 1 gennaio 2004 l’estinzione opera solo a partire dalla predetta data.
3.3. Nel caso concreto, perciò, essendo avvenuta la cancellazione della società il 3.7.2000, l’estinzione di essa è divenuta operativa a far tempo dal 1.1.2004, di modo che se la notificazione dell’atto impositivo oggetto di impugnazione essendo avvenuta il 18.9.2002 è stata rettamente effettuata nei confronti della società, in quanto all’epoca, in ossequio al diritto vivente, la società, pur cancellata, non poteva reputarsi estinta per effetto della intervenuta sopravvenienza, e se altrettanto rettamente in data 6.11.2002 il detto atto è stato impugnato dall’ex liquidatore, nonché ex socio della società, in ragione appunto della sopravvivenza della stessa e della perdurante legittimazione dei suoi organi sociali, al 1.1.2004 la capacità processuale della società doveva ritenersi venuta meno con l’ovvia conseguenza che l’ex liquidatore nonché ex socio nei confronti dei quali, a seguito della sentenza di primo grado, è stato incardinato dall’Agenzia, in allora appellante ed oggi ricorrente, il giudizio d’appello, alla data di notificazione del gravame il 17.8.2008 non disponevano più di alcuna legittimazione processuale a rappresentare in giudizio le sorti della società.
Hanno invero ulteriormente chiarito le SS.UU. (6070/13; 6071/13; 6072/13) che a seguito dell’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono:
– il che sacrificherebbe ingiustamente il diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate. Ne discende che i soci peculiari successori della società, subentrano, altresì, nella legittimazione processuale facente capo all’ente – la cui estinzione è in parte equiparabile alla morte della persona fisica, ai sensi dell’art. 110 c.p.c – in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovverosia a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale (21188/14).
3.4. Se dunque a seguito dell’estinzione della società e della conseguente perdita della capacità processuale che ciò determina il processo avrebbe dovuto continuare nei confronti dei soci, costituendo costoro la giusta parte processuale abilitata, in ragione del fenomeno latamente successorio che si realizza a seguito della cancellazione, ad assumere la veste di legittimo contraddittore nel successivo svolgimento del rapporto processuale) va da sé che nessuna persistente legittimazione può ravvisarsi in capo al liquidatore, poiché l’art. 2495, comma secondo, c.c. consente ai creditori sociali insoddisfatti di agire nei confronti del liquidatore solo “se il mancato pagamento è dipeso da questi”. Come precisato da questa Corte infatti “il liquidatore di una società estinta per cancellazione dal registro delle imprese può ben essere destinatario di una autonoma azione risarcitoria, ma non della pretesa attinente al debito sociale, onde è inammissibile l’impugnazione proposta nei confronti del medesimo con riguardo alla sentenza relativa a quel debito, atteso che la posizione del liquidatore non è quella di successore processuale dell’ente estinto” (7676/12).
Ne discende, pertanto, che non essendo stato il recupero erariale motivato da responsabilità del liquidatore, già il giudizio di appello ed ora a maggior ragione l’intentato ricorso per cassazione nei confronti del medesimo non potevano essere promossi nei confronti del liquidatore risultando costui a far tempo dal 1.1.2004 privo di legittimazione sostanziale in proprio e quindi privo di legittimazione ad causam.
3.5. L’appello sarebbe stato invece proponibile nei confronti dei soci, onde una volta che questo fosse stato incardinato nei confronti del C. in quanto tale, il giudice adito avrebbe dovuto tuttavia ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti anche degli altri soci a mente dell’art. 331 c.p.c., essendo noto, come già si è detto, che il fenomeno successorio – a cui non dissimilmente è riconducibile la vicenda che segue alla cancellazione della società – determina in capo agli eredi l’insorgenza della qualità di litisconsorti necessari per ragioni processuali indipendentemente, cioè, dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale.
Ciò comporterebbe, a stretto rigore, la cassazione in parte qua dell’impugnata sentenza. E’ vero peraltro, che l’art. 36, comma secondo, D.P.R. 602/73 riconosca la legittimazione a rispondere dei debiti fiscali della società a condizione che abbiano ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o abbiano avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione e nei limiti di quanto ricevuto. Ciò ha portato questa Corte ad affermare che “il processo tributario iniziato in relazione alle imposte sui redditi nei confronti di una società non può proseguire nel giudizio di cassazione, una volta che questa si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese, ad opera o nei confronti degli ex soci, poiché essi rispondono del pagamento di tali imposte, ai sensi dell’art. 36, terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, solo se abbiano ricevuto beni sociali dagli amministratori nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione o dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, e nei limiti del valore di detti beni” (11968/12). Poiché come pure chiarito dal precedente testé citato la necessità di accertare tali circostanze comporta un ampliamento del thema decidendum e del thema probandum rispetto alla materia in discussione nei pregressi gradi di giudizio:
– ove la questione qui accennata non era stata dibattuta e non poteva neppure esserlo, essendo divenuta rilevante solo per effetto dello ius superveniens e degli orientamenti interpretativi a cui esso ha dato luogo – il principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., come questa Corte ha già avuto altre occasioni di affermare (2241/15; 437/15; 5729/12), consente di evitare l’adozione di una pronuncia cassatoria decidendo nel merito, e di evitare così il ritorno della controversia avanti ai giudice a quo se, come qui, questo sarebbe chiamato a dar corso ad inutile adempimento processuale, integrando prima il contraddittorio e respingendo poi nel merito la pretesa.
4. Il ricorso va dunque respinto.
Nulla per le spese in difetto di attività processuale della parte vittoriosa.
P.Q.M.
Pronunciando sul ricorso ne dichiara l’infondatezza.