Cass. Civ., Sez. VI-2, sentenza 16 gennaio 2017 n. 868
Corte di Cassazione, VI-2 Sezione civile, sentenza 16 gennaio 2017, n. 868
Ritenuto in fatto
1 La Corte d’Appello di Salerno, con decreto 28.1.2015, ha respinto l’opposizione proposta da D.D., L.G. , E. e R. nonché da T.F. contro il precedente decreto del consigliere designato che, a sua volta, aveva respinto la domanda di equa riparazione proposta dai primi quattro in qualità di eredi di L.V. e dalla quinta in qualità di erede di T.C. , con riferimento ad un giudizio di occupazione illegittima promosso da L.V. e T.C. nel 1987 davanti al Tribunale di Castrovillari e definito dalla Corte d’Appello di Catanzaro con sentenza 24.10.2011.
Per giungere a tale soluzione la Corte salernitana ha osservato che non sussistevano le condizioni per disporre l’integrazione della prova della qualità di eredi, trattandosi di dimostrare la legittimazione a proporre la domanda, cioè un fondamentale e preliminare presupposto della stessa; inoltre, le prodotte dichiarazioni di successione, per il loro mero rilievo fiscale, non apparivano idonee ai fini della prova della qualità di eredi, non dimostrata neppure in sede di opposizione.
2 Ricorrono per cassazione i D. -L. e la T. con due censure.
Il Ministero della Giustizia non ha svolto neppure in questa sede attività difensiva.
Considerato in diritto
1-2 Col primo motivo lamentano, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cpc., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Richiamando la documentazione prodotta davanti al consigliere designato (denunzie di successione) e in sede di opposizione (certificati di morte dei rispettivi e ascendenti e attestati di famiglia) i ricorrenti rimproverano alla Corte di appello di non avere valutato fatti, circostanze e documenti comprovanti la qualità di eredi, considerato che nel caso di specie si era in presenza di successioni legittime sicché dai documenti allegati, unitamente alla proposizione del procedimento in qualità di eredi, poteva ritenersi assolto l’onere probatorio. In ogni caso, considerata la struttura del procedimento (modellato sulla falsariga del giudizio camerale di volontaria giurisdizione) ben poteva il giudice chiedere di ufficio l’esibizione di atti e documenti anche se – aggiungono – non si riesce a comprendere quali altri documenti si sarebbero dovuti produrre per dimostrare lo status di eredi.
Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc., violazione ed errata applicazione degli artt. 475 e 476 nonché dell’art. 30 della legge n. 346/1990. A loro avviso la Corte salernitana, errando nell’interpretare il contenuto della sentenza di legittimità richiamata nel provvedimento impugnato, ha ingiustamente negato valore alle denunzie di successione che, unitamente all’esistenza di atti di accettazione tacita (quali appunto la proposizione di azioni giudiziarie in qualità di eredi) assumevano indubbio valore indiziario. Altro errore che viene addebitato alla Corte d’Appello sta nell’avere ritenuto non provato il decesso dei rispettivi danti causa senza considerare invece che tale prova era stata data indirettamente proprio con la denunzia di successione, la cui presentazione presuppone per legge (art. 30 legge n. 346/1990) la contemporanea allegazione del certificato di morte e quello di stato di famiglia del defunto e degli eredi.
Le due censure – da esaminarsi congiuntamente per il comune riferimento alla tematica inerente alla prova della qualità di eredi – sono fondate.
Innanzitutto, quanto al mancato esercizio dei poteri ufficiosi, di cui pure si dolgono i ricorrenti, come di recente affermato da questa Corte, nel procedimento camerale, il giudice, al fine di garantire il contraddittorio, l’esercizio del diritto di difesa e l’effettività della tutela giurisdizionale, deve esercitare poteri ufficiosi anche mediante l’applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicché è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio richiedendo i necessari chiarimenti (ex art. 183, quarto comma, cod. proc. civ.) e, se del caso, assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi (ex art. 738, terzo comma, cod. proc. civ.), sempreché tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia impiegata per supplire all’onere probatorio o con finalità meramente esplorative (Sez. 6 – 2, Sentenza n. 4412 del 04/03/2015 (Rv. 634450).
La Corte di merito, pertanto, a fronte di dubbi sulla qualità di eredi, considerata l’identità dei cognomi, la veste in cui si erano formalmente presentati (“in qualità di eredi”) e la documentazione allegata (dichiarazioni di successione, certificati di morte e stati di famiglia) avrebbe dovuto provocare il contraddittorio sulla questione e, se del caso, provvedere ai sensi dell’art. 738 c.p.c., u.c. richiedendo le informazioni opportune, ma non stroncare la difesa in un’ottica estremamente formalistica della regola dell’onere probatorio senza peraltro neppure indicare quale altra documentazione i ricorrenti avrebbero dovuto esibire per documentare il loro status di eredi, posto che esso non necessariamente si acquisisce mediante un atto di accettazione espressa (v. art. 474 cc).
Sul valore da attribuire alla denunzia di successione, come correttamente evidenziato dai ricorrenti, la sentenza di questa Corte Sez. 2, n. 13738 del 27/06/2005 Rv. 581423) – che i giudici di merito hanno richiamato per confermare il rigetto della domanda sotto il profilo della legittimazione – ha affermato il diverso principio secondo cui in tema di “legitimatio ad causam”, colui che promuove l’azione (o specularmente vi contraddica) nell’asserita qualità di erede di altro soggetto indicato come originario titolare del diritto (nella specie rivendicazione della proprietà) deve allegare la propria legittimazione per essere subentrato nella medesima posizione del proprio autore, fornendo la prova, in ottemperanza all’onere di cui all’art. 2697 cod. civ., del decesso della parte originaria e della sua qualità di erede, perché altrimenti resta indimostrato uno dei fatti costitutivi del diritto di agire (o a contraddire); per quanto concerne la delazione dell’eredità, tale onere – che non è assolto con la produzione della denuncia di successione – è idoneamente adempiuto con la produzione degli atti dello stato civile, dai quali è dato coerentemente desumere quel rapporto di parentela con il “de cuius” che legittima alla successione ai sensi degli artt. 565 e ss cod. civ.. D’altra parte, con riguardo all’accettazione dell’eredità, poiché ai sensi dell’art. 476 cod. civ. l’accettazione tacita può desumersi dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato incompatibile con la volontà di rinunciarvi, “id est” con un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l’eredità secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo di agire di una persona normale, l’accettazione è implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che – essendo intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o ai danni per la mancata disponibilità di beni ereditari – non rientrano negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 cod. civ., sicché, trattandosi di azioni che travalicano il semplice mantenimento della stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, il chiamato non avrebbe diritto di proporle e, proponendole, dimostra di avere accettato la qualità di erede.
E quanto al valore da attribuire alla dichiarazione di successione, e, sempre con la citata sentenza 13738/2005 – in parte motiva – questa Corte afferma che essa, sebbene non comporti ex se l’accettazione tacita dell’eredità, in quanto atto preordinato a fini essenzialmente fiscali, non di meno, in presenza d’un’attività costituente prova d’accettazione implicita, a sua volta assume valore d’elemento indiziario che nella prova stessa trova supporto ed al contempo nel medesimo senso la rafforza.
Erra pertanto la Corte d’Appello a negare sic et simpliciter qualsiasi valore probatorio alla denunzia di successione, senza porsi minimamente il problema del valore indiziario che invece il documento certamente possedeva se rapportato non solo all’altra documentazione pure prodotta (certificati di morte e di stato di famiglia), ma anche ad un atto di accettazione tacita, quale è l’azione proposta, quali eredi, per conseguire l’equa riparazione spettante ai loro danti causa per il paterna da essi subito (l’azione di equa riparazione, come è evidente, travalica il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente all’atto dell’apertura della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse e dunque rappresenta una iniziativa che il chiamato come tale non avrebbe il diritto di proporre (v. art. 460 c.c.) e pertanto, proponendola, implicitamente dimostra d’aver accettato la qualità d’erede.
A ciò aggiungasi – e con ciò il discorso può chiudersi definitivamente – che secondo altro principio, la parte che abbia un titolo legale che le conferisca il diritto di successione ereditaria – come la vedova del “de cuius”, che è erede legittima e legittimaria – non è tenuta a dimostrare di avere accettato l’eredità, qualora proponga in giudizio domande che di per sé manifestino la volontà di accettare (v. Sez. 3, Sentenza n. 21288 del 14/10/2011 Rv. 619967): il principio, riferito alla parte che vale naturalmente anche per i figli i quali si trovano nella medesima situazione, cioè nel possesso di un titolo che conferisce il diritto di successione ereditaria.
Il decreto va pertanto cassato con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli per nuovo esame sulla scorta dei richiamati principi di diritto, e pronuncia anche sulle spese dl giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli che provvederà anche sulle spese.