Cass. Civ, Sez. VI, Sentenza 16 novembre 2014, n. 21942
Corte di Cassazione, VI Sezione Civile, sentenza 16 Ottobre 2014, n. 21942
Presidente – dott. Di Palma – rel. Ragonesi
Società di capitali – diritto di opzione – deliberazione – annullabilità
Dato che il diritto di opzione è tutelato dalla legge solo in funzione dell’interesse individuale dei soci (a mantenere inalterata la propria partecipazione percentuale nella società), è annullabile – e non affetta da nullità – la deliberazione che sacrifichi il diritto di opzione, anche se al solo scopo di azzerare fraudolentemente la partecipazione del socio alla società.
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(omissis)
Rilevato
Che S.S. ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un solo motivo avverso la sentenza n. 126/13 con cui la Corte d’Appello di Firenze aveva rigettato l’impugnazione proposta dal ricorrente confermando la sentenza del Tribunale della stessa città con cui era stata rigettata la domanda di nullità ex art. 2739 c.c. della delibera del 8.3.2002 adottata dall’assemblea straordinaria della società B. s.r.l. in liquidazione che aveva deliberato un ulteriore aumento di capitale da offrire in opzione ai soci;
che la B. s.r.l. in liquidazione ha resistito con controricorso
Osserva
Con l’unico motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2377 e 2379 c.c. per avere la Corte Territoriale erroneamente ritenuto che la delibera impugnata si poneva in contrasto con norme di diritto non poste a tutela di interessi generali, e pertanto, che la stessa era affetta da mera annullabilità, e non da nullità.
Sostiene, invece, il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe ignorato la divisione dualistica tra le deliberazioni in contrasto con l’interesse dei singoli che, come tali, sono annullabili, e quelle invece contrastanti con norme tese alla tutela di interessi sostanziali che siano dirette ad impedire una deviazione dallo scopo economico e sociale dell’impresa, da cui ne deriverebbe la loro nullità, da evincersi dal contenuto effettivo di esse.
Il motivo appare manifestamente infondato e per certi versi inammissibile.
Anzitutto, si osserva che attengono sostanzialmente a questioni di merito le argomentazioni affrontate dalla parte ricorrente tese a sostenere che la delibera di aumento di capitale, apparentemente motivata con la necessità di acquisire pronte risorse economiche per ridurre l’indebitamento ed i conseguenti oneri finanziari, in realtà sarebbe stata assunta per un motivo illecito, ossia allo scopo di deprimere la sua partecipazione alterando il precedente assetto delle quote sociali.
Il ricorrente sostiene, inoltre, che la delibera debba considerarsi potenzialmente pregiudizievole per i terzi perché idonea ad ingenerare incertezza ovvero erronee convinzioni circa la situazione economico-patrimoniale della società.
Tali argomentazioni tendono in realtà a prospettare una diversa interpretazione delle risultanze processuali chiedendo in tal modo a questa Corte di effettuare un accertamento in punto di fatto che investe il merito della decisione ed è, come tale, in questa sede inammissibile (Cass. 8 maggio 2000, n. 5806; 20 novembre 2003, n. 17651; 12 agosto 2004, n. 15675).
Ferma restando tali detrimenti considerazioni, si osserva, ancorchè superfluamente che il motivo è comunque infondato.
In più pronunce questa Corte ha affermato il principio secondo il quale la nullità delle deliberazioni dell’assemblea delle società per azioni per illiceità dell’oggetto, ai sensi dell’art. 2379 cod. civ. – nel testo applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 6 del 2003 – ricorre solo in caso di contrasto con norme dettate a tutela dell’interesse generale, tale da trascendere quello del singolo socio, mentre il contrasto con norme, anche cogenti, rivolte alla tutela dei singoli soci o di gruppi di essi determina un’ipotesi di semplice annullabilità della delibera. Pertanto, dato che il diritto di opzione è tutelato dalla legge solo in funzione dell’interesse individuale dei soci (a mantenere inalterata la propria partecipazione percentuale nella società), è annullabile – e non affetta da nullità – la deliberazione che sacrifichi il diritto di opzione, anche se al solo scopo di azzerare fraudolentemente la partecipazione del socio alla società, dovendosi ritenere che in quest’ultimo caso sia configurabile un eccesso di potere, inteso come violazione del canone di buona fede nell’esecuzione dei rapporti contrattuali, al quale consegue l’annullabilità dell’atto. (Cass. 26842/2008; Cass. 1361/11; Cass. 27387/05; Cass. 9353/03)
Inoltre, com’è stato anche enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, il diritto di opzione che il socio, nel caso di aumento di capitale, può vantare nei confronti della società, pur potendo esso riflettersi, in concreto, sull’interesse degli altri soci nella misura in cui ne possa risultare modificato il rapporto proporzionale di partecipazione al capitale della società, investe unicamente il rapporto intercorrente tra colui che si pretende titolare del diritto di opzione e la società, sulle cui azioni o quote l’opzione è destinata ad esercitarsi, e non si atteggia quindi come controversia tra soci. (Cass. 4184/13)
Nel caso di specie, pertanto, correttamente la Corte d’Appello ha deciso, in osservanza dei principi giurisprudenziali summenzionati laddove ha affermato che: “la possibilità di configurare come illecito l’oggetto della deliberazione implica che quanto da essa statuito, ossia il suo contenuto sostanziale, sia non soltanto genericamente contra legem, ossia in contrasto con una qualche norma di contenuto cogente, ma violi norme o principi giuridici dettati a presidio di un interesse generale tale da trascendere quello del singolo socio perché soltanto in quel caso l’oggetto può essere qualificato illecito.
Nel caso di specie la delibera non risulta adottata in violazione di nessuna norma, tanto meno di norme imperative”.
A seguito delle osservazioni effettuate, ne consegue che il ricorso non appare meritevole di accoglimento.
Ove si condividano i testè formulati rilievi, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio ricorrendo i requisiti di cui all’art. 375 c.p.c.
PQM
Rimette il processo al Presidente della sezione per la trattazione in Camera di Consiglio.
Roma, 11/06/2014
Il Cons. Rel.
Considerato che non emergono elementi che possano portare a diverse conclusioni di quelle rassegnate nella relazione di cui sopra e che pertanto il ricorso va rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate come da dispositivo
PQM
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in euro 4000,00 oltre euro 100,00 per esborsi ed oltre spese forfetarie ed accessori di legge. Sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente del doppio dei contributi ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR 115/02
Roma 23.9.14
Il Presidente