Cass. Pen., Sez. V, Sentenza 24 novembre 2014, n. 48679
CORTE DI CASSAZIONE – Sezione V Penale, Sentenza 24 novembre 2014, n. 48679
Fatto e diritto
1. Con sentenza dell’11.12.2012 la corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia D.G.A. e S.S. imputati, nelle rispettive qualità di socio accomandatario e di socio accomandante, del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, in relazione al fallimento della “G. s.a.s.”, dichiarato il 5.12.2002, avente ad oggetto la somma di 202 milioni di lire (per un errore materiale indicata in 210 milioni di lire nell’imputazione), che i due imputati avevano prelevato dai conti correnti della società nel corso del 1999, malgrado la G.” non avesse conseguito utili, e l’esercizio commerciale “D,”, che era stato trasferito al fratello dell’imputato, S.O. senza alcun tornaconto per la società fallita, rideterminava in senso più favorevole al reo la pena inflitta al S. dichiarando entrambi gli imputati inabilitati all’esercizio di un’impresa commerciale e incapaci di esercitare uffici direttivi per la durata di dieci anni, confermando nel resto l’impugnata sentenza.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo del loro difensore di fiducia, avv. D. F., entrambi gli imputati, lamentando: 1) che la D.G. non è stata dichiarata fallita, perché al momento della dichiarazione di fallimento la “IQ ” non era più una società in accomandita semplice, ma una ditta individuale, di cui l’imputata non faceva più parte; 2) che i fatti oggetto di contestazione sono tutti relativi ad un periodo in cui il S., essendo socio accomandante, non poteva rispondere di reati fallimentari, non risultando dimostrato, peraltro, che egli fosse stato consapevole della illegittimità dei prelievi e dell’ingiustificato depauperamento del patrimonio sociale; 3) che non può qualificarsi distrattiva l’operazione di acquisito dei mobili della “G.” da parte del S.O. in quanto il mancato pagamento del relativo prezzo da parte di quest’ultimo rappresenta un semplice inadempimento dell’obbligazione che grava sull’acquirente; 4) la nullità ex art. 417, c.p.p., del capo d’imputazione, in quanto dalla documentazione prodotta si evince che la somma di £. 210.000.000 è riferibile al bilancio 1998, e non all’anno 1999, in cui, peraltro, vi fu un utile di esercizio, dovendosi, inoltre, individuare una ulteriore modifica del contenuto del capo d’imputazione nell’avere il curatore fallimentare collocato “il momento distrattivo di esercizio commerciale nel corso dell’anno 2000”; 5) l’applicazione da parte della corte territoriale, in assenza di gravame sul punto del pubblico ministero, delle sanzioni accessorie previste dall’art. 216, co. 2, I. fall.
3. I ricorsi sono inammissibili, sotto molteplici punti di vista.
4. Inammissibili, per genericità, appaiono i motivi sub n. 1) e n. 2).
Peraltro, entrambe le questioni, come risulta dal testo della sentenza impugnata, senza che, sul punto, il ricorrente abbia dedotto una mancanza di motivazione, non sembrano aver formato oggetto di uno specifico motivo di appello.
In ogni caso va notato, da un lato che, in tema di bancarotta fraudolenta, l’eventuale trasformazione meramente formale di una società in accomandita semplice non esclude di per sé la responsabilità per i reati fallimentari ed, in particolare, per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, dovendosi avere riguardo solo alla circostanza se gli atti di distrazione precedenti e/o successivi alla trasformazione siano stati commessi dall’imputato o con il suo concorso (cfr., in questo senso, Cass., sez. V, 11/12/1985, Ruffino); dall’altro che la qualità di socio accomandante non è di per sé incompatibile con la responsabilità in tema di reati fallimentari (cfr. Cass., sez. V, 07/02/1994, Cumani).
Rispetto a tali approdi pacifici nella giurisprudenza di legittimità cui si è uniformata la motivazione della sentenza impugnata, i rilievi difensivi appaiono, come si è detto, del tutto generici.
4.1. Inammissibili sono i motivi di ricorso di cui ai numeri 3) e 4), consistendo essi in censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, quindi, in quanto tali, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, rv. 235507; Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, rv. 235510; Cass., sez. IlI, 27.9.2006, n. 37006, rv. 235508).
Con particolare riferimento al motivo di cui al n. 4), non va taciuta la sussistenza di un’ulteriore causa di inammissibilità, esaurendosi esso nella mera riproposizione acritica delle stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dai giudici del gravame (cfr. p. 3), dovendosi, pertanto, tale motivo considerare non specifico, ma, piuttosto, meramente apparente, non assolvendo la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso.
La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell’art. 591, co. 1, lett. c), c.p.p., all’inammissibilità (cfr. Cass., sez. IV, 18.9.1997 – 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., sez. V, 27.1.2005 – 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Cass., sez. V, 12.12.1996, n. 3608, p.m. in proc. Tizzani e altri, rv. 207389).
4.2. Infine inammissibile per manifesta infondatezza appare l’ultimo motivo di ricorso.
Ed invero ritiene il Collegio di aderire all’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello, delle pene accessorie non applicate in primo grado, ancorché la cognizione della specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero, in quanto la previsione di cui all’art. 597, comma terzo, cod. proc. pen. – che sancisce il divieto della “reformatio in peius” quando appellante sia il solo imputato – non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi, inibiti al giudice di appello, quelli concernenti le pene accessorie, le quali, ex art. 20 cod. pen., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa (cfr. Cass., sez. V, 22.1.2008, n. 8280, rv. 239474; Cass., sez. VI, 14.6.2011, n. 31358, rv. 250553; Cass., sez. VI, 27.11.2012, n. 49759, rv. 254202).
5. Sulla base delle svolte considerazioni i ricorsi vanno dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., ciascuno al pagamento delle spese del procedimento, nonché in favore della cassa delle ammende di una somma a titolo di sanzione pecuniaria, che appare equo fissare in euro 1000,00 tenuto conto dei profili di colpa riscontrabili nella determinazione della evidenziata causa di inammissibilità del ricorso (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende.