CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE SENTENZA DEL 29 DICEMBRE 2010, N. 26259
Iva prima casa: dell’evasione risponde esclusivamente l’acquirente
“L’applicazione dell’aliquota ridotta non costituisce affatto un onere del venditore, ma solo un diritto soggettivo dell’acquirente, la cui fruizione è subordinata soltanto alla manifestazione (espressa nell’atto di acquisto)
della sua volontà di beneficiare di quella riduzione: tale richiesta suppone necessariamente la dichiarazione dell’acquirente della sussistenza di tutte le condizioni necessarie. … Il venditore, dal canto suo, in presenza di detta dichiarazione nell’atto pubblico, si trova nelle condizioni di applicare l’aliquota ridotta, non avendo egli (in assoluta carenza di specifico disposto normativo) nessun potere (dovere) di verificare la sussistenza delle condizioni”, indipendentemente dal fatto che dette condizioni siano di palese evidenza. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n.ro 26259/2010.
LA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE
SENTENZA DEL 29 DICEMBRE 2010, N. 26259
FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso notificato all’AGENZIA delle ENTRATE il 29 settembre 2008 (depositato il 9 ottobre 2008), (..) – premesso che:
(1) con atto registrato il (..) aveva acquistato dalla srl “(X)” (che esercitava un’attività d’impresa) un appartamento;
(2) detto atto, avendo essa dichiarato di essere in possesso dei requisiti per l’agevolazione prima casa, era stato assoggettato all’IVA calcolata con l’aliquota del 4%;
(3) l’Ufficio, accertata la natura di lusso della casa di abitazione venduta, le aveva richiesto la maggiore Imposta derivante dall’applicazione dell’aliquota ordinaria del 20% -, in forza di due motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 19/42/08 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (notificata il 16 luglio 2008) (depositata il giorno 11 marzo 2008) che aveva disatteso l’appello da lei proposto avverso la decisione (193/34/06) della Commissione Tributaria Provinciale di ……. la quale aveva respinto il suo ricorso statuendo:
a) che la superficie utile era di 216 mq.;
b) che la superficie lorda era superiore a 240 mq.;
c) che la superficie rilevante era quella lorda.
Nel controricorso notificato il 7 novembre 2008 (depositato il 25 novembre 2008), l’Agenzia intimata instava per il rigetto del gravame.
Il 27 febbraio 2010 la ricorrente depositava memoria ex art. 378 c.p.c..
DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con la sentenza impugnata la Commissione Tributaria Regionale – premesso aver (1) L’appellante … esposto … che, come risulta da un esperto da lei nominato, il calcolo della superficie dell’immobile oggetto della controversia non sarebbe stato di mq. 308 come indicato sulla denunzia di variazione presentata al catasto ma di mq. 248 e poiché ai fini del D.M. 2 agosto 1969, art. 6 sono abitazioni di lusso “le singole unità immobiliari aventi superficie utile superiore a mq. 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posti macchina)” e (2) L’ufficio ribadito quanto sostenuto in primo grado, in particolare che, giusta quanto comunicato dall’Ufficio del Territorio in risposta ai chiarimenti richiesti allo stesso, l’immobile, avendo una superficie utile totale di mq. 281,85, superiore quindi a mq. 240, deve inquadrarsi tra le abitazioni di lusso D.M. 2 agosto 1969, ex art. 6 -, affermato non esservi contrasto tra le parti (in considerazione anche del fatto che l’art. 6 del D.M. ,.. nel definire le abitazioni di lusso è chiaro) sul fatto che debba essere presa in considerazione la superficie utile, e non quella lorda, ha respinto l’appello della contribuente osservando:
– dalla documentazione in atti, risulta che l’immobile oggetto della controversia … si componeva di 6 locali più servizi al quinto piano, collegato a mezzo di scala interna ai sovrastanti locali (con terrazza e piscina al piano sesto ed ulteriore terrazza al piano settimo, quest’ultima collegata con scala esterna);
– tale unità era stata accatastata, come risulta dall’atto notarile … al Fgl. 295 Mapp. 20 Sub. 734 vani 13,5 sup. mq. 359;
– i dati suddetti, presenti in atti fin dal ricorso principale, sono quelli assegnati a seguito di accertamento della proprietà immobiliare urbana come presentato da un tecnico (si presume della parte venditrice) in data 5 dicembre 2002 e cioè una settimana prima del rogito con il quale l’appellante ha acquistato: quindi ragionevolmente tale variazione catastale é stata predisposta ai fini della compravendita citata;
– successivamente (il 20 febbraio 2003) ll… appellante ha presentato una D.I.A. (dichiarazione di inizio attività) per ristrutturazione interna dell’unità … acquistata;
– l’Agenzia competente, che tra l’altro ha richiesto chiarimenti all’Agenzia del Territorio, non poteva che procedere come avvenuto:
l’appellante avrebbe dovuto preoccuparsi, prima dell’acquisto, di verificare eventuali presunti errori sulla consistenza catastale di quanto acquistato, onde effettuare … una richiesta di agevolazione ammissibile essendo evidente che a fronte di una superficie lorda, come risultante dal certificato catastale … di mq. 359 (per il solo appartamento) non è possibile che la superficie utile sia inferiore di oltre 119 mq. (per rientrare appunto nella superficie massima di mq. 240 del più volte citato D.M. 2 agosto 1969, art. 6);
– il compito di dimostrare questa minor superficie, a fronte del parere dell’Ufficio del Territorio (che dichiara che la superficie utile è di mq. 281,85) compete all’appellante ma vi è agli atti solo il parere perita le, che fa riferimento al progetto presentato con la D.I.A.: manca una effettiva misurazione dell’unità immobiliare, così come acquistata in quanto è l’atto d’acquisto il momento al quale bisogna far riferimento per la controversia, nè risulta agli atti che siano state depositate variazioni al catasto, ai fini della consistenza dell’unità immobiliare, tali da dimostrare l’erroneità della precedente variazione sulla base della quale è stato stipulato l’atto notarile con il conseguente contenzioso.
2. La M. censura tale decisione con due motivi.
A. Con il primo la ricorrente – precisato che la questione (erronea individuazione del soggetto passivo) era stata trascurata (non è stata proposta nei primi due gradi di giudizio); assunto che la stessa è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento – denunzia violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 16 e 27 nonchè falsa applicazione della nota 2 bis) art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (erronea individuazione, da parte dell’ente impositore, del soggetto passivo dell’IVA) adducendo:
– a) la qualificazione di una casa di abitazione come . . . di lusso dipende esclusivamente, in base al DM 2 agosto 1969, dalle caratteristiche oggettive dell’immobile (caratteristiche che, senza ombra di dubbio, conosce meglio il venditore dell’acquirente);
– tanto la nota 2 bis) della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, quanto il n. 21 della tabella allegata al D.P.R. n. 633 del 1972 dichiarano … espressamente di riferirsi alle sole cessioni di case di abitazione non di lusso; se … la casa è di lusso, l’agevolazione prima casa non potrà mai trovare applicazione, ragion per cui non assumono alcun rilievo i comportamenti e le dichiarazioni dell’acquirente; conseguentemente non operano nè il disposto del n. 21 della tabella allegata al D.P.R. n. 633 del 1972, nè la nota 2 bis della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986.
Secondo la ricorrente, se la casa è di lusso, deve, . . applicarsi, sempre e comunque (sia che ricorrano, sia che non ricorrano le condizioni per l’agevolazione prima casa), il regime ordinario:
poichè il regime ordinario ai fini IVA prevede che le cessioni siano assoggettate all’aliquota del 20% (art. 16), che il soggetto passivo dell’imposta sia il venditore (art. 11), che il venditore abbia diritto a rivalsa sull’acquirente, tranne che nei casi in cui l’imposta sia dovuta a seguito di accertamento (art. 60).
(2) il cedente ha sbagliato nell’applicare l’aliquota perchè esso, in quanto soggetto passivo IVA, in quanto emittente della fattura, in quanto possessore dei beni ceduti, deve conoscere l’aliquota ad essi applicabile (in particolare che alle case di abitazione di lusso si applica sempre e comunque l’aliquota del 20%), e (2) l’Ufficio avrebbe dovuto applicare il regime previsto … per le ordinarie cessioni di case di abitazione di lusso ed accertare che la (X) srl, soggetto passivo ai fini IVA, aveva versato un’imposta inferiore al dovuto emettendo un corrispondente avviso di rettifica nei confronti della stessa, la quale non poteva rivalersi nei suoi confronti per il divieto posto dall’art. 60 detto. La M. aggiunge:
– un avviso di accertamento che individui come debitore il contribuente A in luogo del contribuente B è un avviso di accertamento inesistente, e non semplicemente invalido, perchè difetta di un requisito essenziale: L’eccezione relativa alla erronea individuazione del soggetto passivo, infatti, riguarda un requisito indispensabile per la stessa esistenza dell’atto impositivo (di tal che deve intendersi rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento) essendo impossibile, prima che illegittimo, un accertamento a carico di un soggetto che non sia professionista, nè imprenditore (unici soggetti passivi dell’IVA);
– la preclusione discende . . . anche dal diritto comunitario (che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve applicarsi d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento) atteso che per tal diritto (sesta direttiva e successive modificazioni e integrazioni;
art. 4 della sesta direttiva CÈ, n. 388/1977; art. 9 della direttiva CÈ n. 112/2006), al pari del diritto nazionale, i soggetti passivi dell’IVA sono professionisti e imprenditori.
La ricorrente – richiamato il principio affermato da questa Corte nella sentenza n. 2712 del 25 febbraio 2002 -, quindi, conclude la doglianza con il seguente “quesito di diritto”:
“se ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 16 e 17 nel caso in cui la cessione di una casa di abitazione di lusso venga assoggettata all’IVA con aliquota del 4% in luogo della aliquota del 20%, l’Agenzia delle Entrate debba emettere l’avviso di liquidazione della maggiore imposta dovuta nei confronti del venditore, soggetto passivo IVA, ovvero nei confronti dell’acquirente, consumatore finale”.
B. Con l’altro motivo la contribuente – esposto che nel ricorso introduttivo aveva eccepito essere la superficie rilevante ai fini della qualificazione come casa di lusso … quella utile nella specie inferiore a 240 mq (“per un totale di mq. 216,51 inferiore di circa il 12,7% della superficie lorda”) e che la Commissione Tributaria Provinciale aveva stabilito (a) che la superficie utile della casa. .
era inferiore a mq. 240 (“la superficie lorda compreso i muri risulta di mq. 248 … la fruibilità dei locali di mq. 216,511) e (b) che la superficie rilevante ai fini della qualificazione come casa di lusso era quella lorda – denunzia la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 54 adducendo che l’Agenzia … non aveva proposto appello, nè in via principale, nè in via incidentale, avverso la statuizione di primo grado favorevole, in termini di misurazione della superficie utile, alla contribuente per cui la Commissione Regionale non avrebbe potuto riesaminare la questione nè, a maggior ragione, risolverla a favore della parte che sul punto aveva prestato acquiescenza nei confronti della decisione di primo grado.
La ricorrente, quindi, formula questo “quesito”:
“se possa ritenersi conforme al disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e dell’art. 2909 cod. civ., nell’ambito di una controversia vertente sulla misurazione della superficie utile di un appartamento, la decisione di secondo grado che modifichi la misura indicata nella sentenza di primo grado in assenza di una specifica impugnazione proposta da alcuna delle parti”.
3. Il ricorso deve essere respinto.
A. La doglianza formulata nel primo motivo è inammissibile e, comunque, infondata.
A.1. Il disposto logico ed eziologico dell’art. 53 Cost. (per il cui comma 1 “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”), richiamato dalla M., invero, non è idoneo a consentire il travolgimento delle ordinarie regole processuali – che informano anche e vieppiù il processo tributario, atteso l’obbligo previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 18, comma 2, lett. e), del contribuente di dedurre già nel ricorso introduttivo del giudizio tutti i “motivi”, nessuno escluso, di contestazione della pretesa tributaria – necessariamente sotteso alla tesi della rilevabilità d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del processo, del difetto di legittimazione sostanziale di una parte processuale che (come nel caso) non abbia mai posto quel difetto a fondamento di una sua deduzione e/o eccezione di merito.
L’obbligo di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” ed il correlativo diritto di “tutti” a non essere (comunque) assoggettati ad un prelievo fiscale soggettivamente e/o oggettivamente indebito – desumibili certamente dalla norma costituzionale -, infatti, in ipotesi di contestazione giudiziaria di una pretesa fiscale, come naturale, trovano la loro tutela esclusivamente nel processo, nel quale, però, la posizione di terzietà del giudice (ex art. 111 Cost.) impedisce – in difetto di qualsiasi interesse pubblico – di riconoscere allo stesse giudice il potere di rilevare d’ufficio (come pure, consequenzialmente, di richiedere la relativa prova in assenza di afferente contestazione delle parti) l’eventuale carenza di titolarità della situazione giuridica sostanziale atteso che anche per l’obbligazione tributaria l’accertamento di quella titolarità attiene unicamente al merito della controversia per cui (giusta i principi reiteratamente affermati da questa Corte in relazione alle ordinarie obbligazioni civili) i difetto di essa titolarità non è rilevabile d’ufficio perchè la relativa contestazione è rimessa al solo potere dispositivo della parte interessata (su cui gravano anche i corrispondenti oneri di allegazione e di prova) (cfr., per l’obbligazione civilistica, Cass.: 2^, 3 giugno 2009 n. 12832; 3^, 9 aprile 2009 n. 8699; 3^, 15 settembre 2008 n. 23670; 3^, 30 maggio 2008 n. 14468; 2^, 6 marzo 2008 n. 6132; 1^, 10 gennaio 2008 n. 355;
1^, 16 maggio 2007 n. 11321).
Nessuna preclusione, inoltre, discende … dal diritto comunitario – atteso che, come riconosce la stessa ricorrente, non vi è nessun contrasto tra le norme (sostanziali) nazionali e quelle comunitarie quanto alla individuazione dei soggetti passivi dell’IVA e nella specie siffatta individuazione per la prima volta innanzi a questa Corte è ostacolata solo da norme processuali interne: “in mancanza di normativa comunitaria”, come chiarito dalla Corte di Giustizia CE sentenza depositata il 12 dicembre 2006 nel procedimento C-446/04, “avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte … nella causa tra Test Claimants in the FU Group Litigation e Commissioners of Inland Revenue”, “spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro …
disciplinare le modalità processuali delle azioni giuridiche volte a garantire la salvaguardia dei diritti conferiti ai singoli del diritto comunitario …”.
A. 2. La tesi della ricorrente – e tanto si considera unicamente in considerazione della funzione attribuita a questo giudice di legittimità dal R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 65 (per il cui comma 1 “la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”) -, peraltro, come anticipato, è anche giuridicamente infondata perchè l’oggettiva inapplicabilità ad una casa … di lusso dell’agevolazione (nel caso, giusta il disposto del n. 21 della “parte seconda” della “tabella A” allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’aliquota del 4%) non costituisce ostacolo all’applicazione del disposto finale di detta norma secondo cui “in caso di dichiarazione mendace nell’atto di acquisto, ovvero di rivendita nel quinquennio dalla data dell’atto, si applicano le disposizioni indicate” nella “nota 2 – bis) all’art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131”, in particolare, quindi, della disposizione dettata dal comma 4 di detta “nota 2 bis)” la quale, “in caso di dichiarazione mendace”, dispone specificamente che “se si tratta di cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi t atti deve recuperare nei confronti degli acquirenti la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonchè irrogare la sanzione amministrativa, pari al 30 percento della differenza medesima …”.
La peculiare disposizione, invero, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente (peraltro sulla base di un inaccettabile concetto ristretto di “dichiarazione mendace”), al pari della analoga (contenuta nel mediamo quarto comma della nota 2 bis) in ipotesi di non spettanza delle agevolazioni dell’imposta di registro chieste per la identica “finalità” (agevolare l’acquisto della c.d. “prima casa”), regola tutte le ipotesi di accertata non spettanza del beneficio fiscale (sia che si tratti di Imposta sul Valore Aggiunto che di imposta di registro) perchè per “dichiarazione mendace” deve intendersi ogni e qualsiasi richiesta di fruizione del beneficio in difetto delle condizioni, soggettive ed oggettive, previste dalla Legge.
In particolare (anche quanto all’IVA) va evidenziato che l’applicazione dell’aliquota ridotta non costituisce affatto un obbligo del venditore (nè, tanto meno, dell’Ufficio) ma (solo) un diritto soggettivo dell’acquirente, la cui fruizione è subordinata soltanto alla manifestazione (espressa nell’atto di acquisto) della sua volontà di fruire di quella riduzione: tale richiesta, pertanto, suppone necessariamente la “dichiarazione” dell’acquirente (contribuente) della sussistenza di tutte le condizioni contemplate dalle specifiche norme per godere dell’agevolazione.
La presenza della “dichiarazione”, come noto, consente all’Ufficio solo di riscuotere le imposte di registro nella misura prevista dal beneficio (salvo il successivo esercizio del potere di negarne la spettanza): parimenti, in ipotesi di “cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto”, la medesima “dichiarazione” impone al venditore di applicare l’aliquota ridotta non avendo egli (in assolta carenza di specifico disposto normativo) nessun potere nè di contrastare l’afferente manifestazione di volontà dell’acquirente di volersi avvalere del beneficio fiscale nè, comunque, di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per il riconoscimento del beneficio stesso.
La “dichiarazione” dell’acquirente di voler fruire del beneficio fiscale, invero, istituisce un rapporto giuridico diretto ed esclusivo tra l’acquirente stesso e l’amministrazione finanziaria in ordine al quale non assume nessun rilievo il regime giuridico proprio dell’imposta per cui, in ipotesi di soggezione dell’atto all’IVA, la soggettività passiva esclusiva del venditore non rileva perchè tale qualità impone al venditore medesimo unicamente di assoggettare l’operazione economica al regime agevolato richiesto (potestativamente) dall’acquirente.
Proprio in considerazione di tanto il comma 4 della richiamata nota 2 bis) impone (“deve”) all'”ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti” di “recuperare nei confronti degli acquirenti” (non dei venditori, avendo questi esaurito il rispettivo rapporto tributario assoggettando l’atto all’aliquota ridotta conseguente alla richiesta dell’acquirente) (1) “la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata” e (2) di “irrogare la sanzione amministrativa, pari al 30 per cento della differenza medesima”.
B. Anche in secondo motivo di ricorso non ha pregio.
L’Ufficio, infatti, essendo risultato totalmente vittorioso (per avere il giudice di primo grado rigettato il ricorso della M.), non aveva nessun interesse (ex art. 100 c.p.c.) di impugnare con appello incidentale il punto della eventuale statuizione con cui quel giudice aveva considerato una superficie minore: in proposito deve ritenersi sufficiente a rimettere in discussione quella misura la sola riproposizione, operata dall’Ufficio – il quale, secondo la Commissione Tributaria Regionale, come riportato, ha ribadito in appello che l’immobile, avendo una superficie utile totale di mq.
281,85, superiore quindi a mq. 240, deve inquadrarsi tra le abitazioni di lusso D.M. 2 agosto 1969, ex art. 6 -, della misura ritenuta effettiva, da considerare ai fini della qualifica di lusso o meno dell’immobile, misura, costituente il presupposto fattuale della pretesa fiscale contenuta nell’atto impositivo impugnato.
4. Per la sua integrale soccombenza la ricorrente, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., deve essere condannata a rifondere all’Agenzia le spese del giudizio di legittimità, liquidate, nella misura indicata in dispositivo, in base al valore della controversia ed all’attività difensiva espletata dalla parte vittoriosa.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere all’Agenzia le spese giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro …….,00 (……………/00), di cui Euro ………,00 (……./00) per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.